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Edmondo De Amicis: L'infermiere di tata

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La mattina d'un giorno piovoso di marzo, un ragazzo vestito da campagnuolo, tutto inzuppato d'acqua e infangato, con un involto di panni sotto il braccio, si presentava al portinaio dell'Ospedale maggiore di Napoli e domandava di suo padre, presentando una lettera. Aveva un bel viso ovale d'un bruno pallido, gli occhi pensierosi e due grosse labbra semiaperte, che lasciavan vedere i denti bianchissimi. Veniva da un villaggio dei dintorni di Napoli.
Suo padre, partito di casa l'anno addietro per andare a cercar lavoro in Francia, era tornato in Italia e sbarcato pochi dì prima a Napoli, dove, ammalatosi improvvisamente, aveva appena fatto in tempo a scrivere un rigo alla famiglia per annunziarle il suo arrivo e dirle che entrava all'ospedale. Sua moglie, desolata di quella notizia, non potendo moversi di casa perché aveva una bimba inferma e un'altra al seno, aveva mandato a Napoli il figliuolo maggiore, con qualche soldo, ad assistere suo padre, il suo Tata, come là si dice; il ragazzo aveva fatto dieci miglia di cammino.
Il portinaio, data un'occhiata alla lettera, chiamò un infermiere e gli disse che conducesse il ragazzo dal padre.
- Che padre? - domandò l'infermiere.
Il ragazzo, tremante per il timore d'una trista notizia, disse il nome.
L'infermiere non si rammentava quel nome.
- Un vecchio operaio venuto di fuori? - domandò.
- Operaio sì, - rispose il ragazzo, sempre più ansioso; non tanto vecchio. Venuto di fuori, sì.
- Entrato all'ospedale quando? - domandò l'infermiere.
Il ragazzo diede uno sguardo alla lettera. - Cinque giorni fa, credo.
L'infermiere stette un po' pensando; poi, come ricordandosi a un tratto: - Ah! - disse, - il quarto camerone, il letto in fondo.
- È malato molto? Come sta? - domandò affannosamente il ragazzo.
L'infermiere lo guardò, senza rispondere. Poi disse: - Vieni con me.
Salirono due branche di scale, andarono in fondo a un largo corridoio e si trovarono in faccia alla porta aperta d'un camerone, dove s'allungavano due file di letti. - Vieni, - ripeté l'infermiere, entrando. Il ragazzo si fece animo e lo seguitò, gettando sguardi paurosi a destra e a sinistra, sui visi bianchi e smunti dei malati, alcuni dei quali avevan gli occhi chiusi, e parevano morti, altri guardavan per aria con gli occhi grandi e fissi, come spaventati. Parecchi gemevano, come bambini. Il camerone era oscuro, l'aria impregnata d'un odore acuto di medicinali. Due suore di carità andavano attorno con delle boccette in mano.
Arrivato in fondo al camerone, l'infermiere si fermò al capezzale d'un letto, aperse le tendine e disse: - Ecco tuo padre.

Il ragazzo diede in uno scoppio di pianto, e lasciato cadere l'involto, abbandonò la testa sulla spalla del malato, afferrandogli con una mano il braccio che teneva disteso immobile sopra la coperta. Il malato non si scosse.
Il ragazzo si rialzò e guardò il padre, e ruppe in pianto un'altra volta. Allora il malato gli rivolse uno sguardo lungo e parve che lo riconoscesse. Ma le sue labbra non si muovevano. Povero Tata, quanto era mutato! Il figliuolo non l'avrebbe mai riconosciuto. Gli s'erano imbiancati i capelli, gli era cresciuta la barba, aveva il viso gonfio, d'un color rosso carico, con la pelle tesa e luccicante, gli occhi rimpiccioliti, le labbra ingrossate, la fisionomia tutta alterata: non aveva più di suo che la fronte e l'arco delle sopracciglia. Respirava con affanno. - Tata, tata mio! - disse il ragazzo. - Son io, non mi riconoscete? Sono Cicillo, il vostro Cicillo, venuto dal paese, che m'ha mandato la mamma. Guardatemi bene, non mi riconoscete? Ditemi una parola.
Ma il malato, dopo averlo guardato attentamente, chiuse gli occhi.
- Tata! Tata! che avete? Sono il vostro figliuolo, Cicillo vostro.
Il malato non si mosse più, e continuò a respirare affannosamente.
Allora, piangendo, il ragazzo prese una seggiola, sedette e stette aspettando, senza levar gli occhi dal viso di suo padre. - Un medico passerà bene a far la visita, - pensava. - Egli mi dirà qualche cosa. - E s'immerse ne' suoi pensieri tristi, ricordando tante cose del suo buon padre, il giorno della partenza, quando gli aveva dato l'ultimo addio sul bastimento, le speranze che aveva fondato la famiglia su quel suo viaggio, la desolazione di sua madre all'arrivo della lettera; e pensò alla morte, vide suo padre morto, sua madre vestita di nero, la famiglia nella miseria. E stette molto tempo così. Quando una mano leggiera gli toccò una spalla, ed ei si riscosse: era una monaca. - Che cos'ha mio padre? - le domandò subito. - È tuo padre? - disse la suora, dolcemente. - Sì, è mio padre, son venuto. Che cos'ha? - Coraggio, ragazzo, - rispose la suora; - ora verrà il medico. - E s'allontanò, senza dir altro.
Dopo mezz'ora, sentì il tocco d'una campanella, e vide entrare in fondo al camerone il medico, accompagnato da un assistente; la suora e un infermiere li seguivano. Cominciaron la visita, fermandosi a ogni letto. Quell'aspettazione pareva eterna al ragazzo, e ad ogni passo del medico gli cresceva l'affanno. Finalmente arrivò al letto vicino. Il medico era un vecchio alto e curvo, col viso grave. Prima ch'egli si staccasse dal letto vicino, il ragazzo si levò in piedi, e quando gli s'avvicinò, si mise a piangere.
 
 

Il medico lo guardò.
- È il figliuolo del malato - disse la suora; - è arrivato questa mattina dal suo paese.
Il medico gli posò una mano sulla spalla, poi si chinò sul malato, gli tastò il polso, gli toccò la fronte, e fece qualche domanda alla suora, la quale rispose: - nulla di nuovo. Rimase un po' pensieroso, poi disse: - Continuate come prima.
Allora il ragazzo si fece coraggio e domandò con voce di pianto: - Che cos'ha mio padre?
- Fatti animo, figliuolo, - rispose il medico, rimettendogli una mano sulla spalla. - Ha una risipola facciale. È grave, ma c'è ancora speranza. Assistilo. La tua presenza gli può far del bene.
- Ma non mi riconosce! - esclamò il ragazzo in tuono desolato.
- Ti riconoscerà... domani, forse. Speriamo bene, fatti coraggio.
Il ragazzo avrebbe voluto domandar altro; ma non osò. Il medico passò oltre. E allora egli cominciò la sua vita d'infermiere. Non potendo far altro accomodava le coperte al malato, gli toccava ogni tanto la mano, gli cacciava i moscerini, si chinava su di lui ad ogni gemito, e quando la suora portava da bere, le levava di mano il bicchiere o il cucchiaio, e lo porgeva in sua vece. Il malato lo guardava qualche volta; ma non dava segno di riconoscerlo. Senonché il suo sguardo si arrestava sempre più a lungo sopra di lui, specialmente quando si metteva agli occhi il fazzoletto. E così passò il primo giorno. La notte il ragazzo dormì sopra due seggiole, in un angolo del camerone, e la mattina riprese il suo ufficio pietoso. Quel giorno parve che gli occhi del malato rivelassero un principio di coscienza. Alla voce carezzevole del ragazzo pareva che un'espressione vaga di gratitudine gli brillasse un momento nelle pupille, e una volta mosse un poco le labbra come se volesse dir qualche cosa. Dopo ogni breve assopimento, riaprendo gli occhi, sembrava che cercasse il suo piccolo infermiere. Il medico, ripassato due volte, notò un poco di miglioramento. Verso sera, avvicinandogli il bicchiere alle labbra, il ragazzo credette di veder guizzare sulle sue labbra gonfie un leggerissimo sorriso. E allora cominciò a riconfortarsi, a sperare. E con la speranza d'essere inteso, almeno confusamente, gli parlava, gli parlava a lungo, della mamma, delle sorelle piccole, del ritorno a casa, e lo esortava a farsi animo, con parole calde e amorose. E benché dubitasse sovente di non esser capito, pure parlava, perché gli pareva che, anche non comprendendo, il malato ascoltasse con un certo piacere la sua voce, quell'intonazione insolita di affetto e di tristezza. E in quella maniera passò il secondo giorno, e il terzo, e il quarto, in una vicenda di miglioramenti leggieri e di peggioramenti improvvisi; e il ragazzo era così tutto assorto nelle sue cure, che appena sbocconcellava due volte al giorno un po' di pane e un po' di formaggio, che gli portava la suora, e non vedeva quasi quel che seguiva intorno a lui, i malati moribondi, l'accorrere improvviso delle suore di notte, i pianti e gli atti di desolazione dei visitatori che uscivano senza speranza, tutte quelle scene dolorose e lugubri della vita d'un ospedale, che in qualunque altra occasione l'avrebbero sbalordito e atterrito. Le ore, i giorni passavano, ed egli era sempre là col suo Tata, attento, premuroso, palpitante ad ogni suo sospiro e ad ogni suo sguardo, agitato senza riposo tra una speranza che gli allargava l'anima e uno sconforto che gli agghiacciava il cuore.

Il quinto giorno, improvvisamente, il malato peggiorò.
Il medico, interrogato, scrollò il capo, come per dire che era finita, e il ragazzo s'abbandonò sulla seggiola, rompendo in singhiozzi. Eppure una cosa lo consolava. Malgrado che peggiorasse, a lui sembrava che il malato andasse riacquistando lentamente un poco d'intelligenza. Egli guardava il ragazzo sempre più fissamente e con un'espressione crescente di dolcezza, non voleva più prender bevanda o medicina che da lui, e sempre più spesso faceva quel movimento forzato delle labbra, come se volesse pronunciare una parola; e lo faceva così spiccato qualche volta, che il figliuolo gli afferrava il braccio con violenza, sollevato da una speranza improvvisa, e gli diceva con accento quasi di gioia: - Coraggio, coraggio, Tata, guarirai, ce n'andremo, torneremo a casa con la mamma, ancora un po' di coraggio!

Erano le quattro della sera, e allora appunto il ragazzo s'era abbandonato a uno di quegli impeti di tenerezza e di speranza, quando di là dalla porta più vicina del camerone udì un rumore di passi, e poi una voce forte, due sole parole: - Arrivederci, suora! - che lo fecero balzare in piedi, con un grido strozzato nella gola. Nello stesso momento entrò nel camerone un uomo, con un grosso involto alla mano, seguito da una suora.
Il ragazzo gettò un grido acuto e rimase inchiodato al suo posto.
L'uomo si voltò, lo guardò un momento, gittò un grido anch'egli: - Cicillo! - e si slanciò verso di lui.
Il ragazzo cadde fra le braccia di suo padre, soffocato. Le suore, gl'infermieri, l'assistente accorsero, e rimasero lì, pieni di stupore.
Il ragazzo non poteva raccogliere la voce.
- Oh Cicillo mio! - esclamò il padre, dopo aver fissato uno sguardo attento sul malato, baciando e ribaciando il ragazzo. - Cicillo, figliuol mio, come va questo? T'hanno condotto al letto d'un altro. E io che mi disperavo di non vederti, dopo che mamma scrisse: l'ho mandato. Povero Cicillo! Da quanti giorni sei qui? Com'è andato questo imbroglio? Io me la son cavata con poco. Sto bene in gamba, sai! E la mamma? E Concettella? E 'u nennillo, come vanno? Io me n'esco dall'ospedale. Andiamo dunque. O signore Iddio! Chi l'avrebbe mai detto!
Il ragazzo stentò a spiccicar quattro parole per dar notizie della famiglia. - Oh come sono contento! - balbettò. - Come sono contento! Che brutti giorni ho passati! E non rifiniva di baciar suo padre.
Ma non si muoveva.
- Vieni dunque - gli disse il padre. - Arriveremo ancora a casa stasera. Andiamo. - E lo tirò a sé.
Il ragazzo si voltò a guardare il suo malato.
- Ma... vieni o non vieni? - gli domandò il padre, stupito.
Il ragazzo diede ancora uno sguardo al malato, il quale, in quel momento, aperse gli occhi e lo guardò fissamente.
Allora gli sgorgò dall'anima un torrente di parole. - No, Tata, aspetta... ecco... non posso. C'è quel vecchio. Da cinque giorni son qui. Mi guarda sempre. Credevo che fossi tu. Gli volevo bene. Mi guarda, io gli do da bere, mi vuol sempre accanto, ora sta molto male, abbi pazienza, non ho coraggio, non so, mi fa troppo pena, tornerò a casa domani, lasciami star qui un altro po', non va mica bene che lo lasci, vedi in che maniera mi guarda, io non so chi sia, ma mi vuole, morirebbe solo, lasciami star qui, caro Tata!
- Bravo, piccerello! - gridò l'assistente.
Il padre rimase perplesso, guardando il ragazzo; poi guardò il malato. - Chi è? - domandò.
- Un contadino come voi - rispose l'assistente, - venuto di fuori, entrato all'ospedale lo stesso giorno che c'entraste voi. Lo portaron qui ch'era fuor di senso, e non poté dir nulla. Forse ha una famiglia lontana, dei figliuoli. Crederà che sia un dei suoi, il vostro.
Il malato guardava sempre il ragazzo.
Il padre disse a Cicillo: - Resta.
- Non ha più da restar che per poco, - mormorò l'assistente.
- Resta -, ripeté il padre. - Tu hai cuore. Io vado subito a casa a levar di pena la mamma. Ecco uno scudo pei tuoi bisogni. Addio, bravo figliuolo mio. A rivederci.
Lo abbracciò, lo guardò fisso, lo ribaciò in fronte, e partì.
Il ragazzo tornò accanto al letto, e l'infermo parve racconsolato. E Cicillo ricominciò a far l'infermiere, non piangendo più, ma con la stessa premura, con la stessa pazienza di prima; ricominciò a dargli da bere, ad accomodargli le coperte, a carezzargli la mano, a parlargli dolcemente, per fargli coraggio. Lo assistette tutto quel giorno, lo assistette tutta la notte, gli restò ancora accanto il giorno seguente. Ma il malato s'andava sempre aggravando; il suo viso diventava color violaceo, il suo respiro ingrossava, gli cresceva l'agitazione, gli sfuggivan dalla bocca delle grida inarticolate, l'enfiagione si faceva mostruosa. Alla visita della sera, il medico disse che non avrebbe passata la notte. E allora Cicillo raddoppiò le sue cure e non lo perdette più d'occhio un minuto. E il malato lo guardava, lo guardava, e muoveva ancora le labbra, tratto tratto, con un grande sforzo, come se volesse dir qualche cosa, e un'espressione di dolcezza straordinaria passava a quando a quando nei suoi occhi, che sempre più si rimpiccolivano e s'andavano velando. E quella notte il ragazzo lo vegliò fin che vide biancheggiare alle finestre il primo barlume di giorno, e comparire la suora. La suora s'avvicinò al letto, diede un'occhiata al malato e andò via a rapidi passi. Pochi momenti dopo ricomparve col medico assistente e con un infermiere, che portava una lanterna.
- È all'ultimo momento, - disse il medico.
Il ragazzo afferrò la mano del malato. Questi aprì gli occhi, lo fissò, e li richiuse.
In quel punto parve al ragazzo di sentirsi stringere la mano.
- M'ha stretta la mano! - esclamò.
Il medico rimase un momento chino sul malato, poi s'alzò. La suora staccò un crocifisso dalla parte.
- E morto! - gridò il ragazzo.
- Va', figliuolo, - disse il medico. - La tua santa opera è compiuta. Va' e abbi fortuna, che la meriti. Dio ti proteggerà. Addio.
La suora che s'era allontanata un momento, tornò con un mazzettino di viole, tolte da un bicchiere sulla finestra, e lo porse al ragazzo, dicendo: - Non ho altro da darti. Tieni questo per memoria dell'ospedale.
- Grazie, - rispose il ragazzo, - pigliando il mazzetto con una mano e asciugandosi gli occhi con l'altra; - ma ho tanta strada da fare a piedi... lo sciuperei. - E sciolto il mazzolino sparpagliò le viole sul letto, dicendo: - Le lascio per ricordo al mio povero morto. Grazie, sorella. Grazie, signor dottore. - Poi, rivolgendosi al morto: - Addio... - E mentre cercava un nome da dargli, gli rivenne dal cuore alle labbra il dolce nome che gli aveva dato per cinque giorni: - Addio, povero Tata!
Detto questo, si mise sotto il braccio il suo involtino di panni, e a lenti passi, rotto dalla stanchezza, se n'andò. L'alba spuntava.






Edmondo De Amicis: La piccola vedetta lombarda

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Nel 1859, durante la guerra per la liberazione della Lombardia, pochi giorni dopo la battaglia di Solferino e San Martino, vinta dai Francesi e dagli Italiani contro gli Austriaci, in una bella mattinata del mese di giugno, un piccolo drappello di cavalleggieri di Saluzzo andava di lento passo, per un sentiero solitario, verso il nemico, esplorando attentamente la campagna.

Guidavano il drappello un ufficiale e un sergente, e tutti guardavano lontano, davanti a sé, con occhio fisso, muti, preparati a veder da un momento all'altro biancheggiare fra gli alberi le divise degli avamposti nemici. Arrivarono così a una casetta rustica, circondata di frassini, davanti alla quale se ne stava tutto solo un ragazzo d'una dozzina d'anni, che scortecciava un piccolo ramo con un coltello, per farsene un bastoncino; da una finestra della casa spenzolava una larga bandiera tricolore; dentro non c'era nessuno: i contadini, messa fuori la bandiera, erano scappati, per paura degli Austriaci. Appena visti i cavalleggieri, il ragazzo buttò via il bastone e si levò il berretto. Era un bel ragazzo, di viso ardito, con gli occhi grandi e celesti, coi capelli biondi e lunghi; era in maniche di camicia, e mostrava il petto nudo.
- Che fai qui? - gli domandò l'ufficiale, fermando il cavallo. - Perché non sei fuggito con la tua famiglia?
- Io non ho famiglia, - rispose il ragazzo. - Sono un trovatello. Lavoro un po' per tutti. Son rimasto qui per veder la guerra.
- Hai visto passare degli Austriaci?
- No, da tre giorni.
L'ufficiale stette un poco pensando; poi saltò giù da cavallo, e lasciati i soldati lì, rivolti verso il nemico, entrò nella casa e salì sul tetto... La casa era bassa; dal tetto non si vedeva che un piccolo tratto di campagna. - Bisogna salir sugli alberi, - disse l'ufficiale, e discese. Proprio davanti all'aia si drizzava un frassino altissimo e sottile, che dondolava la vetta nell'azzurro. L'ufficiale rimase un po' sopra pensiero, guardando ora l'albero ora i soldati; poi tutt'a un tratto domandò al ragazzo:
- Hai buona vista, tu, monello?
- Io? - rispose il ragazzo. - Io vedo un passerotto lontano un miglio.
- Saresti buono a salire in cima a quell'albero?
- In cima a quell'albero? io? In mezzo minuto ci salgo.
- E sapresti dirmi quello che vedi di lassù, se c'è soldati austriaci da quella parte, nuvoli di polvere, fucili che luccicano, cavalli?
- Sicuro che saprei.
- Che cosa vuoi per farmi questo servizio?
- Che cosa voglio? - disse il ragazzo sorridendo. - Niente. Bella cosa! E poi... se fosse per i tedeschi, a nessun patto; ma per i nostri! Io sono lombardo.
- Bene. Va su dunque.
- Un momento, che mi levi le scarpe.
Si levò le scarpe, si strinse la cinghia dei calzoni, buttò nell'erba il berretto e abbracciò il tronco del frassino
- Ma bada... - esclamò l'ufficiale, facendo l'atto di trattenerlo, come preso da un timore improvviso.
Il ragazzo si voltò a guardarlo, coi suoi begli occhi celesti, in atto interrogativo.
- Niente, - disse l'ufficiale; - va su.
Il ragazzo andò su, come un gatto.
- Guardate davanti a voi, - gridò l'ufficiale ai soldati.

In pochi momenti il ragazzo fu sulla cima dell'albero, avviticchiato al fusto, con le gambe fra le foglie, ma col busto scoperto, e il sole gli batteva sul capo biondo, che pareva d'oro. L'ufficiale lo vedeva appena, tanto era piccino lassù.
- Guarda dritto e lontano, - gridò l'ufficiale.
Il ragazzo, per veder meglio, staccò la mano destra dall'albero e se la mise alla fronte.
- Che cosa vedi? - domandò l'ufficiale.
Il ragazzo chinò il viso verso di lui, e facendosi portavoce della mano, rispose: - Due uomini a cavallo, sulla strada bianca.
- A che distanza di qui?
- Mezzo miglio.
- Movono?
- Son fermi.
- Che altro vedi? - domandò l'ufficiale, dopo un momento di silenzio. - Guarda a destra.
Il ragazzo guardò a destra.
Poi disse: - Vicino al cimitero, tra gli alberi, c'è qualche cosa che luccica. Paiono baionette.
- Vedi gente?
- No. Saran nascosti nel grano.
In quel momento un fischio di palla acutissimo passò alto per l'aria e andò a morire lontano dietro alla casa.
- Scendi, ragazzo! - gridò l'ufficiale. - T'han visto. Non voglio altro. Vien giù.
- Io non ho paura, - rispose il ragazzo.
- Scendi... - ripeté l'ufficiale, - che altro vedi, a sinistra?
- A sinistra?
- Sì, a sinistra
Il ragazzo sporse il capo a sinistra; in quel punto un altro fischio più acuto e più basso del primo tagliò l'aria. Il ragazzo si riscosse tutto. - Accidenti! - esclamò. - L'hanno proprio con me! - La palla gli era passata poco lontano.
- Scendi! - gridò l'ufficiale, imperioso e irritato.
- Scendo subito, - rispose il ragazzo. - Ma l'albero mi ripara, non dubiti. A sinistra, vuole sapere?
- A sinistra, - rispose l'ufficiale; - ma scendi.
- A sinistra, - gridò il ragazzo, sporgendo il busto da quella parte, - dove c'è una cappella, mi par di veder...
Un terzo fischio rabbioso passò in alto, e quasi ad un punto si vide il ragazzo venir giù, trattenendosi per un tratto al fusto ed ai rami, e poi precipitando a capo fitto colle braccia aperte.
- Maledizione! - gridò l'ufficiale, accorrendo.
Il ragazzo batté la schiena per terra e restò disteso con le braccia larghe, supino; un rigagnolo di sangue gli sgorgava dal petto, a sinistra. Il sergente e due soldati saltaron giù da cavallo; l'ufficiale si chinò e gli aprì la camicia: la palla gli era entrata nel polmone sinistro. - È morto! - esclamò l'ufficiale. - No, vive! - rispose il sergente. - Ah! povero ragazzo! bravo ragazzo! - gridò l'ufficiale; - coraggio! coraggio! - Ma mentre gli diceva coraggio e gli premeva il fazzoletto sulla ferita, il ragazzo stralunò gli occhi e abbandonò il capo: era morto. L'ufficiale impallidì, e lo guardò fisso per un momento; poi lo adagiò col capo sull'erba; s'alzò, e stette a guardarlo; anche il sergente e i due soldati, immobili, lo guardavano: gli altri stavan rivolti verso il nemico.
- Povero ragazzo! - ripeté tristemente l'ufficiale. - Povero e bravo ragazzo!
Poi s'avvicinò alla casa, levò dalla finestra la bandiera tricolore, e la distese come un drappo funebre sul piccolo morto, lasciandogli il viso scoperto. Il sergente raccolse a fianco del morto le scarpe, il berretto, il bastoncino e il coltello.
Stettero ancora un momento silenziosi; poi l'ufficiale si rivolse al sergente e gli disse: - Lo manderemo a pigliare dall'ambulanza; è morto da soldato: lo seppelliranno i soldati. - Detto questo mandò un bacio al morto con un atto della mano, e gridò: - A cavallo. - Tutti balzarono in sella, il drappello si riunì e riprese il suo cammino.
E poche ore dopo il piccolo morto ebbe i suoi onori di guerra.
Al tramontar del sole, tutta la linea degli avamposti italiani s'avanzava verso il nemico, e per lo stesso cammino percorso la mattina dal drappello di cavalleria, procedeva su due file un grosso battaglione di bersaglieri, il quale, pochi giorni innanzi, aveva valorosamente rigato di sangue il colle di San Martino. La notizia della morte del ragazzo era già corsa fra quei soldati prima che lasciassero gli accampamenti. Il sentiero, fiancheggiato da un rigagnolo, passava a pochi passi di distanza dalla casa. Quando i primi ufficiali del battaglione videro il piccolo cadavere disteso ai piedi del frassino e coperto dalla bandiera tricolore, lo salutarono con la sciabola; e uno di essi si chinò sopra la sponda del rigagnolo, ch'era tutta fiorita, strappò due fiori e glieli gettò. Allora tutti i bersaglieri, via via che passavano, strapparono dei fiori e li gettarono al morto. In pochi minuti il ragazzo fu coperto di fiori, e ufficiali e soldati gli mandavan tutti un saluto passando: - Bravo, piccolo lombardo! - Addio, ragazzo! - A te, biondino! - Evviva! - Gloria! - Addio! - Un ufficiale gli gettò la sua medaglia al valore, un altro andò a baciargli la fronte. E i fiori continuavano a piovergli sui piedi nudi, sul petto insanguinato, sul capo biondo. Ed egli se ne dormiva là nell'erba, ravvolto nella sua bandiera, col viso bianco e quasi sorridente, povero ragazzo, come se sentisse quei saluti, e fosse contento d'aver dato la vita per la sua Lombardia.

Edmondo De Amicis: Il piccolo patriotta padovano

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Non sarò un soldato codardo, no; ma ci andrei molto più volentieri alla scuola, se il maestro ci facesse ogni giorno un racconto come quello di questa mattina. Ogni mese, disse, ce ne farà uno, ce lo darà scritto, e sarà sempre il racconto d'un atto bello e vero, compiuto da un ragazzo. Il piccolo patriotta padovano s'intitola questo. Ecco il fatto.
Un piroscafo francese partì da Barcellona, città della Spagna, per Genova, e c'erano a bordo francesi, italiani, spagnuoli, svizzeri. C'era, fra gli altri, un ragazzo di undici anni, mal vestito, solo, che se ne stava sempre in disparte, come un animale selvatico, guardando tutti con l'occhio torvo. E aveva ben ragione di guardare tutti con l'occhio torvo. Due anni prima, suo padre e sua madre, contadini nei dintorni di Padova, l'avevano venduto al capo d'una compagnia di saltimbanchi; il quale, dopo avergli insegnato a fare i giochi a furia di pugni, di calci e di digiuni, se l'era portato a traverso alla Francia e alla Spagna, picchiandolo sempre e non sfamandolo mai. Arrivato a Barcellona, non potendo più reggere alle percosse e alla fame, ridotto in uno stato da far pietà, era fuggito dal suo aguzzino, e corso a chieder protezione al Console d'Italia, il quale, impietosito, l'aveva imbarcato su quel piroscafo, dandogli una lettera per il Questore di Genova, che doveva rimandarlo ai suoi parenti; ai parenti che l'avevan venduto come una bestia. Il povero ragazzo era lacero e malaticcio. Gli avevan dato una cabina nella seconda classe. Tutti lo guardavano; qualcuno lo interrogava: ma egli non rispondeva, e pareva che odiasse e disprezzasse tutti, tanto l'avevano inasprito e intristito le privazioni e le busse.
 
 

Tre viaggiatori, non di meno, a forza d'insistere con le domande, riuscirono a fargli snodare la lingua, e in poche parole rozze, miste di veneto, di spagnuolo e di francese, egli raccontò la sua storia. Non erano italiani quei tre viaggiatori; ma capirono, e un poco per compassione, un poco perché eccitati dal vino, gli diedero dei soldi, celiando e stuzzicandolo perché raccontasse altre cose; ed essendo entrate nella sala, in quel momento, alcune signore, tutti e tre per farsi vedere, gli diedero ancora del denaro, gridando: - Piglia questo! - Piglia quest'altro! - e facendo sonar le monete sulla tavola.
Il ragazzo intascò ogni cosa, ringraziando a mezza voce, col suo fare burbero, ma con uno sguardo per la prima volta sorridente e affettuoso. Poi s'arrampicò nella sua cabina, tirò la tenda, e stette queto, pensando ai fatti suoi. Con quei danari poteva assaggiare qualche buon boccone a bordo, dopo due anni che stentava il pane; poteva comprarsi una giacchetta, appena sbarcato a Genova, dopo due anni che andava vestito di cenci; e poteva anche, portandoli a casa, farsi accogliere da suo padre e da sua madre un poco più umanamente che non l'avrebbero accolto se fosse arrivato con le tasche vuote. Erano una piccola fortuna per lui quei denari. E a questo egli pensava, racconsolato, dietro la tenda della sua cabina, mentre i tre viaggiatori discorrevano, seduti alla tavola da pranzo, in mezzo alla sala della seconda classe. Bevevano e discorrevano dei loro viaggi e dei paesi che avevan veduti, e di discorso in discorso, vennero a ragionare dell'Italia. Cominciò uno a lagnarsi degli alberghi, un altro delle strade ferrate, e poi tutti insieme, infervorandosi, presero a dir male d'ogni cosa. Uno avrebbe preferito di viaggiare in Lapponia; un altro diceva di non aver trovato in Italia che truffatori e briganti; il terzo, che gl'impiegati italiani non sanno leggere.
- Un popolo ignorante, - ripete il primo.
- Sudicio, - aggiunse il secondo.
- La... - esclamò il terzo; e voleva dir ladro, ma non poté finir la parola: una tempesta di soldi e di mezze lire si rovesciò sulle loro teste e sulle loro spalle, e saltellò sul tavolo e sull'impiantito con un fracasso d'inferno. Tutti e tre s'alzarono furiosi, guardando all'in su, e ricevettero ancora una manata di soldi in faccia.
- Ripigliatevi i vostri soldi, - disse con disprezzo il ragazzo, affacciato fuor della tenda della cuccetta; - io non accetto l'elemosina da chi insulta il mio paese.
 

Schema per il punto croce: Gattino tra i fiori

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Un dolcissimo gattino, che fa le fusa tra i fiori, da realizzare a punto croce con uno schema assolutamente orginale..

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Misure:  circa cm 69  x 52 su tela Aida 44
Misura circa cm 55  x  41 su tela Aida 55


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Schemi per il punto croce: Angelo con ghirlanda

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Un dolcissimo soggetto per realizzare un bel quadretto. Un angelo con la ghirlanda di fiori da realizzare a punto croce.

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Il lavoro comprende 250 punti in larghezza e 310 in altezza.
Misure:  circa cm 57  x 71 su tela Aida 44
Misura circa cm 46  x 57  su tela Aida 55


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Zeus e le stirpi greche

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I vari popoli della Grecia si vantavano, in genere, di discendere da figli di Zeus. Di qui il sorgere di numerosi miti nei quali Zeus appare sposo temporaneo di dee, di ninfe o di donne mortali per aver da loro un fanciullo destinato a divenire capostipite di questa o quella stirpe.

Tra le figlie di Atlante-sette graziose fanciulle che più tardi, assunte in cielo, formarono la delicata costellazione delle Pleiadi- alcune furono spose di Zeus. Maia, la più famosa, gli diede, come si è detto, Ermes; da Taigete nacque Lachedàimon, capostipite della stirpe spartana; da Elettra ebbe vita Dàrdano, i cui discendenti avrebbero formato il popolo di Troia, nell'Asia Minore.

Due figlie del fiume Asopo ebbero pure da Zeus capostipiti di genti illustri. L'una, Egina, fu la madre di Eaco, da cui discesero eroi come Aiace e Achille; l'altra Antìope, diede vita ai gemelli Zeto e Anfìone, capostipiti di famose stirpi tebane.

La ninfa Callisto, "la bellissima", che Giove dovette poi trasformare in un'orsa per sottrarla alle ire della gelosa Era, e che poi, assunta in cielo, divenne la costellazione dell'Orsa, fu la madre dell'eroe Arcas, capostipite degli Arcadi. Lo steddo Elleno, da cui discese l'intero popolo greco, detto anche ellenico, era figlio, secondo un mito, di Zeus e Pirra, moglie di Deucalione.

E sarebbe troppo lungo e monotono elencare tutti i figli di Zeus, avuti in genere da ninfe, dai quali, secondo una mitologia che si fece col tempo sempre più ricca, discesero le varie popolazioni delle città greche. Più interessanti sono invece i miti che riguardano i figli dati a Zeus da donne mortali e destinati a fondare famiglie famose. Per secoli i poeti li arricchirono di particolari creando una serie di fascinosi racconti.

Ne esporrò i principali.

Il mito di Io

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Il mito di Io

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Il mito di Dànae
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Il mito di Dànae

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Al mito di Io si ricollega, in certo modo, quello di Dànae, figlia di Acrisio re di Argo, il quale era appunto un lontano discendente di Epafo. Un oracolo aveva predetto al re Acrisio che sarebbe stato spodestato da suo nipote, e Acrisio, impaurito, decise di rinchiudere la sua unica figlia, Dànae, in una torre di bronzo: in tal modo ella non avrebbe potuto sposarsi e il temuto nipote non sarebbe nato.

Ma Zeus aveva visto la fanciulla e aveva ormai deciso di farla sua sposa: per giungere fino a lei ricorse a un'altra delle sue meravigliose trasformazioni e attraversò le sbarre della sua prigione come una fulgida pioggia d'oro. Nacque così uno dei più noti eroi della Grecia, Pèrseo, di cui conosceremo più avanti le avventure.

Naturalmente Acrisio, quando lo seppe, si sentì pieno di paura e di collera, e ordinò che la madre e il bimbo fossero messi in una barca e abbandonati al mare. La barca, adorna di fiori come la vittima di un sacrificio, galleggiò tranquilla sulle onde e giunse alle spiagge di un'isola delle Cicladi, Sèrifo, impigliandosi nelle reti di un pescatore.

Era questi Dictis, fratello dello stesso re del luogo, il quale ebbe compassione della bella e piangente naufraga e la condusse al palazzo reale. Così la giovane principessa e il suo bambino furono accolti a corte, dove Pèrseo crebbe forte e audace; e tutto sarebbe andato bene se il re Polidecte non si fosse follemente invaghito di Dànae, che non voleva saperne di lui.

Di qui tutta una serie di soprusi e di violenze che si abbatterono sulla sventurata donna e sul buon Dictis, suo difensore, finchè non venne a salvarli, come vedremo, il giovane Pèrseo, reduce da mille gloriose avventure.


Il mito di Europa

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Il mito di Europa

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E' questo un mito molto noto, che allude ai primi rapporti dei Greci con l'Oriente. Europa, infatti, era figlia di Agènore, un sovrano fenicio. Un giorno, questa graziosa principessa giocava a palla con le sue ancelle sulla spiaggia della città di Tiro quando le si avvicinò un bellissimo e mansueto toro dal candido mantello. La fanciulla lo accarezzò e, vedendolo così buono e tranquillo, incominciò ad appendergli alle corna delle ghirlande fiorite. Allora il toro si inginocchiò davanti a lei ed Europa, senza alcun sospetto, gli sedette sul dorso per giuoco.

Ma quel toro era lo stesso Zeus, il quale aveva scelto la principessa fenicia come sua nuova sposa mortale e, non appena sentì su di sè il dolce peso di Europa, si alzò bruscamente e si tuffò nel mare trascinando con sè la fanciulla, che, disperata, invano chiedeva aiuto alle sue compagne sbigottite.

Dopo aver nuotato a lungo, il dio raggiunse le spiagge di Creta, uscì dalle onde e, fatta scendere Europa, tutta sgomenta, le si mostrò improvvisamente nel suo splendore e le chiese di essere sua sposa. Loro figli furono Minosse, Radamante e Sarpedonte: i primi due regnarono in Creta e divennero celebri per la loro giustizia, tanto che, dopo la loro morte, divennero giudici nei regni infernali. Sarpedonte emigrò nella Licia, nell'Asia Minore, e divenne un eroe di quel paese.


Il mito di Sèmele

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Il mito di Sèmele

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Di origine fenicia era anche Sèmele, figlia di Cadmo, fondatore e re di Tebe, come vedremo, il quale era, come Europa, figlio di Agènore. Zeus si invaghì di lei e ne fece una delle sue spose mortali, ma Era, sempre vigile, volle vendicarsi. Prese dunque l'aspetto della vecchia nutrice della principessa e si presentò a lei facendole sorgere il dubibo che il suo sposo non fosse, come affermava, il signore degli dèi. E poichè Sèmele, ormai piena di sospetti, non sapeva che fare, le diede un perfido suggerimento: se voleva avere la certezza di non essere stata ingannata doveva chiedere a Zeus di presentarsi a lei radiante di tutto il suo splendore divino. L'ingenua Sèmele seguì il consiglio e, appena il suo celeste sposo le apparve, gli espresse il suo desiderio. Zeus ne fu turbato perchè tempo prima aveva promesso a Sèmele che le avrebbe concesso tutto quello che lei gli avesse chiesto, e, d'altra parte, sapeva che, se si fosse mostrato a lei, mortale, avvolto nella sua luce celeste, ella non avrebbe resistito a quel bagliore e sarebbe caduta fulminata.

Ma invano cercò di indurla a rinunciare alla sua richiesta. allora, costretto a mantenere la promessa fatta, le si presentò tra lampi e fulmini sul suo splendido cocchio, e la sventurata Sèmele cadde a terra, arsa da quelle luci. Zeus volle però salvare il figlio che stava per nascere da lei e, poichè era ancora troppo piccolo per venire alla luce, se lo cucì entro una coscia per farlo crescere lì al sicuro. Qualche tempo dopo il bambino nasceva: era un nuovo dio, l'allegro Diònisio.

Da questo mito è venuto il detto "nascere dalla coscia di Zeus" o di Giove, come lo chiamarono i Romani, per indicare un'alta nobiltà.


Leda e il cigno


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Leda e il cigno

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Molto importante, per i figli che ne nacquero e le vicende di cui essi furono i protagonisti, fu una delle più note spose mortali di Zeus: Leda ,sposa di Tindareo re di Sparta. Zeus che conosceva i decreti del Fato, sapeva che questa prole doveva venire alla luce, ma Leda non ambiva le nozze col dio, contenta di essere la sposa di un mortale. Per giungere a lei,  Zeus dovette ricorrere a una delle sue solite trasformazioni.

Un giorno d'estate Leda, mentre passeggiava nei boschi intorno a Sparta, fu attratta dalle fresche acque di un laghetto e volle farvi un bagno con le sue ancelle. Dopo un poco, un cigno bianchissimo uscì dal folto di verzura e si avvicinò piano alla regina: naturalmente si trattava di Zeus, il quale, passando maestoso, sfiorò con le sue piume la nuotatrice.

Da queste singolari nozze nacquero quattro gemelli racchiusi, racconta il mito, in un candido uovo. Erano due maschi, Càstore e Polluce, e due femmine, Elena e Clitennestra, dei quali conosceremo più avanti le vicende. Secondo alcuni scrittori, però, solo Polluce ed Elena sarebbero stati figli di Zeus, mentre Càstore e Clitennestra erano figli dello sposo mortale Tindareo. Certo è che i due maschi sarebbero divenuti eroi semidivini mentre le due femmine avrebbero turbato, con la loro bellezza, la tranquillità di tutta la Grecia.


Il mito di Alcmena

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Il mito di Alcmena

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Un'importanza ancora maggiore ebbe l'ultima fra le più note spose mortali di Zeus, la regina Alcmena, sposa di Anfitrione re di Tirinto. Zeus aveva deciso di dar vita a un essere di forza eccezionale il quale potesse offrire una valida difesa non solo agli uomini ma anche agli dèi, e sapeva che solo la regina di  Tirinto avrebbe potuto divenire la madre di questo eroe più che umano. Ma Alcmena amava profondamente il saggio e generoso Anfitrione (così generoso da essere divenuto leggendario come ospite che convita, regalmente i suo visitatori) e non voleva sentir parlare di nuove nozze, anche se divine.


Avvene che Anfitrione dovette partire per una guerra e, Alcmena, chiusa nelle sue stanze attese pazientemente il ritorno di lui senza lasciarsi avvicinare da alcuno. Infine giunse un messaggero per avvertirla che il marito aveva sconfitto i suoi nemici e sarebbe presto tornato vincitore alla reggia. Infatti, dopo pochi giorni, ecco giungere Anfitrione sul suo cocchio, bello e splendido come non era mai stato. E Alcmena corse felice nelle sue braccia.

In realtà non si trattava affatto di Anfitrione, il quale correva ancora sulla via del ritorno, ma di Zeus che, per poter avvicinare la bella regina, aveva assunto le sembianze del marito di lei. Nacque così Eracle, o Ercole, come lo chiamarono i Romani, l'eroe nazionale della Grecia. Più tardi Anfitrione seppe da un famoso indovino, Tiresia, quello che era avvenuto, ma, saggio e generoso qual'era, allevò amorosamente il figlio di Zeus insieme al proprio figlio, Ificle.

Era, invece, gelosa come sempre, ebbe per Eracle un'antipatia profonda, e la manifestò già al momento della sua nascita. Infatti il giorno in cui il fanciullo doveva venire alla luce, Zeus, felice, annunciò a tutti gli dèi riuniti in concilio che stava per nascere un eroe destinato a regnare su tutta la terra di Argo. Era, allora, lasciò inosservata l'Olimpo, corse sulla terra e, come dea della maternità, le fu facile ritardare la nascita di Eracle e affrettare invece quella del figlio di un'altra regina, Euristeo.

Così avvenne che, poichè Zeus aveva ormai fatto l'annuncio ufficiale e non poteva disdire quello che aveva detto, toccò più tardi a Euristeo, uomo mediocrissimo, il regno di Argo, mentre Eracle fu solo un suo suddito.


Caratteri di Zeus

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Caratteri di Zeus

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Tutti questi miti, tuttavia, non ci danno una idea precisa del carattere di Zeus. Ci fanno anzi pensare che il signore degli dèi, per i Greci, non avesse altro da fare che dar vita a dèi ed eroi sposando successivamente dee, ninfe e donne mortali a dispetto di una moglie ufficiale e gelosa.

In realtà non si può dire che Zeus abbia un carattere nettamente definito, ma è certo infinitamente più umano delle due grandi divinità che lo avevano preceduto, Urano e Crono, e che rappresentavano, evidentemente, dèi antichissimi il cui culto fu poi sopraffatto dal culto del nuovo dio.


In Zeus i Greci videro soprattutto l'espressione di una paternità solenne, severa e giusta. Gli dèi hanno per lui una profonda reverenza, quando egli aggrotta le folte sopracciglia tutti tremano; le stesse  forze della natura gli obbediscono, egli tutto guida e dirige, punisce le colpe e premia le virtù. Le sue ire sono terribili, ma non mai selvagge; lo sdegno, per quanto profondo, non gli fa mai perdere il controllo di sé.

La sua caratteristica fondamentale è una serenità interiore, detta appunto "olimpica" cioè propria dell'Olimpo, sede degli dèi, che rimane intatta anche nei momenti di più grave corruccio e gli permette di essere sempre giusto. Come dio celeste, egli è signore delle tempeste e delle folgori: un fascio di folgori è anzi la sua arma caratteristica e il suo emblema, così come l'aquila, uccello a lui sacro, è simbolo della sua potenza, della sua intelligenza, della sua maestà.

Ma quello che soprattutto rende umano questo dio è la sua consapevolezza di non essere onnipotente, di dover obbedire anche lui, al pari degli altri dèi e degli uomini, alle decisioni di una forza superiore e imperscrutabile, il Fato. I decreti del Fato sono spesso contrari ai suoi desideri: uomini a lui cari sono destinati a volte a una morte prematura, ed egli non può impedirlo; gli stessi suoi figli sono colpiti da sventure che egli non può evitare; e lui stesso dovrà un giorno perire perchè gli dèi della Grecia, per quanto chiamati immortali, dovranno cadere alla fine dei tempi, quando tutto si dissolverà e rimarrà solo il Fato, la legge assoluta.

Per questo è drammatico e significativo il suo contrasto con Promèteo. Il titanide rappresenta l'intelligenza generosa e insoddisfatta , l'aspirazione a mete irraggiungibili, il desiderio angosciato e ribelle di raggiungere  in qualche modo l'eterno. Zeus accetta i suoi limiti ed esplica con serenità la sua potenza pur sapendo che non è assoluta ed è destinata all'annientamento.

Tutto questo, naturalmente, non appare nei miti popolari, ma solo nelle interpretazioni dei grandi poeti e dei filosofi; ma dobbiamo tenere a mente queste considerazioni se vogliamo capire la mitologia greca.

 Fine  prima parte

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Schemi per il punto croce: La nascita di Venere - Botticelli -

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Un vero capolavoro da realizzare a punto croce. La nascita di Venere del Botticelli.

Se vuoi realizzare questo lavoro richiedi lo schema e ti sarà inviato per email gratuitamente. Serviti del modulo contatti a sinistra del blog per fare la tua richiesta.

Il lavoro comprende 500punti in larghezza e 314 in altezza.
Misure:  circa cm 114  x 72 su tela Aida 44
Misura circa cm 91  x  58 su tela Aida 55


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Schemi per il punto croce: I sette nani

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I sette nani da realizzare a punto croce. Ogni schema comprende 200 punti in larghezza e 250 in altezza che tradotti in cm sono circa cm 46  x 57 su tela Aida 44, e cm 37 x 46 su tela Aida 55.

Se vuoi realizzare questo lavoro richiedi gli schemi. Tutti gli schemi vengono preparati in file pdf e  copiati su un DVD quindi spediti tramite posta opportunamente impacchettati.  Per questo lavoro è richiesto un contributo di euro 5,00 (in quanto sono 7 schemi completi),  più i costi di spedizione. Serviti del modulo contatti a sinistra del blog per fare la tua richiesta e conoscere tutte le condizioni. 

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Brontolo















Cucciolo















Dotto















Eolo















Gongolo















Mammolo















Pisolo

















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Schemi per il punto croce: Le principesse Disney

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Bellissime le principesse Disney da ricamare a punto croce. Lo schema è originalissimo e creato in esclusiva per Professione Donna.

Il lavoro comprende 300 punti in larghezza e 300  in altezza.
Misure:  circa cm 69  x 69 su tela Aida 44
Misura circa cm 55  x  55  su tela Aida 55

Questo servizio ha un costo. Se vuoi realizzare questo lavoro serviti del modulo contatti a sinistra del blog per fare la tua richiesta e per ricevere  tutte le spiegazioni.

  

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Schemi per il punto croce: Santa Lucia

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L'immagine di Santa Lucia da ricamare a punto croce.

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Il lavoro comprende 250 punti in larghezza e 376 in altezza.
Misure:  circa cm 57  x 86  su tela Aida 44
Misura circa cm 46  x 69  su tela Aida 55



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