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Schemi per il filet: Striscia per il tavolo


Schemi per il filet: Bordo per mensola con coniglietti

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Bordo mensola con conigletti e fiocchetti. Sta bene soprattutto in una cameretta per bambini. Può esere utilizzato anche come bordo per una tendina di lino.

Per le spiegazioni:  Clicca sulle immagini per scaricarle nel formato reale. Salvale sul tuo computer e aprile con il programma Paint. (spiegazioni in lingua portoghese)



















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Fai da te: Il tappeto con il nodo Ghiordes_3

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Un bellissimo disegno per realizzare un tappeto unico e originale con la tecnica del nodo Ghiordes

Materiale occorrente: 

  1. canovaccio per tappeti, 
  2. 1 ago-uncinetto per tappeti
  3. 1 apparecchio per tagliare la lana (se non si adopera lana già tagliata)
Colori della lana da utilizzare:
  • rosa antico = 1300 g
  • Rosa = 450 g
  • Violetto = 1050 g
  • Melanzana =  2240 g 
  • Grigio = 650 g 
Per il bordo: lana color melanzana g 200

Lo schema: (Clicca sulle immagini per scaricarle nel formato reale. Salvale sul tuo computer e aprile con il programma Paint).

Realizzate il tappeto seguendo questo modello. Il lavoro si inizia dal basso a sinistra e si prosegue verso destra, si lavora riga per riga. Ad ogni quadratino corrisponde un nodo.
Le misure di questo tappeto sono  115 x 150 cm.

Fate i nodi con lo speciale uncinetto e la lana da tagliare o già tagliata. Se dovete tagliare la lana utilizzate l'apposita macchinetta. I fili per il nodo Ghiordes sono della lunghezza di 5-5,5 cm. Non dimenticate di lasciare un po' di margine ai lati del canovaccio per rinforzare i bordi, ricoprendoli con un filo di lana a treccia.

E' consigliabile rifinire i bordi prima di iniziare il lavoro perchè alla fine il tappeto sarà  troppo pesante e poco maneggevole.

Guarda qui per vedere come si realizza Il bordo a treccia


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Ugo Foscolo (1778-1827)

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Il maggior poeta e prosatore italiano degli inizi dell'Ottocento, nacque il 6 febbraio del 1778 nel'isola di Zante, nelle Ionie, da madre greca e padre veneziano. Gli fu dato il nome di Niccolò; egli aggiunse poi a questo nome quello di Ugo, che infine usò da solo, rimanendo per tutti Ugo Foscolo. 

Zante apparteneva alla Repubblica di Venezia ed egli  si considerò veneziano; il clima spirituale della Grecia, di cui dalla madre aveva appreso il linguaggio, rimase sempre intimamente legato al suo spirito, quasi in una romantica nostalgia di pure bellezze classiche.

Aveva sette anni quado il padre, Andrea, trasferì la famiglia a Spalato, sempre in dominio venziano; tre anni dopo, nel 1788, Andrea Foscolo moriva. Il piccolo Niccolò, con la sorella Rubina e i fratelli Giovanni e Giulio, fu rimandato nelle isole Ionie, presso la nonna e le zie, mentre la madre si recava a Venezia per sistemare i propri interessi. Infine, nel 1793, i fratelli Foscolo raggiungevano la madre a Venezia, dove li attendeva una vita modesta ma non minacciata dal bisogno.

 A quindici anni, Ugo era già colto: conosceva quasi perfettamente il greco classico e il latino e approfondiva sempre più i proprio studi. Aveva un carattere ardente, impetuoso fin quasi alla violenza, tormentato da crisi di corrucciata malinconia. Amava appassionatamente lo studio fino a imporsi minuziose e faticose ricerche erudite, ma con eguale passione tendeva poi ad abbandonarsi agli allettamenti della vita, primi fra tutti gli amori, che lo attrassero ancor giovinetto. In quegli anni veneziani la sua personalità si formò quasi compiutamente.

Dall'antica Grecia e dai suoi eroi trasse una concezione morale fondata sulla dignità dell'uomo libero tutto teso a forti ideali, animato da grandi passioni.Le Vite di Plutarco erano il suo libro preferito, come lo erano, del resto, per quasi tutta la gioventù colta dell'epoca. Non sopportava tutto ciò che era meschino, comune, volgare: quindi nemmeno la povertà, in cui era costretto a vivere, e gli abiti modesti, che doveva indossare. Non riuscì mai a superare il desiderio di essere ricco anche se seppe più volte sopportare dignitosamente la povertà.

Nessuna meraviglia, dunque se Ugo accolse con entusiasmo le idee della rivoluzione francese. Nel gennaio del 1797, a dicannove anni, faceva rappresentare una tragedia di stile alfieriano, Tieste, tutta volta contro le tirranidi, che otteneve un clamoroso successo. Napoleone era già sceso in Italia iniziando la sua cosiddetta opera di liberazione: sorgeva la Repubblica Cispadana. Ed ecco il Foscolo pronto ad esaltarlo con la sua appassionata ode A Bonaparte liberatore.

Nell'ottobre dello stesso 1797 il "liberatore" cede Venezia all'Austria col trattato di Campoformio; è un duro colpo per Ugo, che vede la sua patria asservita, ma egli crede ancora nei valori della rivoluzione e abbandona Venezia, dove rimangono sua madre e i suoi fratelli, per tasferirsi a Milano, la capitale della nuova Repubblica Cisalpina.

Comincia così un nuovo periodo della sua turbinosa vita. Il Foscolo si dà alla politica e quindi passa nell'esercito. Mentre Napoleone è in Egitto e le milizie austriache e russe vanno riassoggettando l'Italia, egli combatte come ufficiale delle truppe cisalpine ed è ferito all'assedio di Genova. Tornato Napoleone, il Foscolo rimane nell'esercito e per due anni, dal 1804 al 1806, è in Francia, con la divisione italiana fra le truppe che Napoleone raccoglie nel nord per la spedizione, non mai avvenuta, contro l'Inghilterra. Poi, venuto meno il progetto, torna in Italia, sempre nell'esercito.


Non è un periodo eroico, ma sono tuttavia anni di vita intensa. Quel focoso letterato non ha tempra di un buon ufficiale e, in definitiva, viene addetto ai servizi sedentari che gli lasciano piena libertà di dedicarsi alle lettere. Il suo carattere impetuoso dà scarso affidamento. Una volta ha l'incarico di difendere, in un tribunale militare, un soldato colpevole di omicidio; il Foscolo perora per lui con il suo solito ardore finchè non ha l'infelice idea di domandare all'accusato se prova rimorso per il suo delitto. Questi risponde brutalmente di no, ed ecco quello strano difensore tuonare fuori di sè: "Fucilatelo! Fucilatelo!".

In fondo, della vita militare, lo attrae solo l'esteriore avventurosità: il fascino dell'uniforme, il giuoco, sorta di guerra pacifica che attraeva tutti gli ufficiali di quell'epoca, gli amori, altra guerra pacifica in cui egli si impegna, al solito, con tutta la pssionalità del suo carattere. L'unico a cui Ugo rimarrà legato sarà quello per Quirina Mocenni Magiotti.

Certo la milizia non lo impegna: tutta la sua principale produzione letteraria è di questi anni. A Genova, nel 1800, scrive l'ode famosa a Luigia Pallavicini caduta da cavallo; fra il 1798 e il 1802 porta a termine le Ultime lettere di Jacopo Ortis; del 1802 è l'ode All'amica risanata; del 1807 il carme Dei sepolcri, tralasciando numerose opere di critica letteraria. Adesso il Foscoloè celebre, ma il suo carattere battagliero e irruente gli ha procurato numerosi nemici: in prima linea Vincenzo Monti, il più affermato poeta dell'epoca, sostanzialmente mediocre, ma di una mediocrità di prim'ordine. Nel 1809 viene nominato professore di eloquenza all'università di Pavia, ma un anno dopo la cattedra viene soppressa. Nel 1811 la sua tragedia Aiace viene proibita perchè appare offensiva alla maestà di Napoleone imperatore.

Il Foscolo, amareggiato, vaga adesso per l'Italia finchè, nel 1812, si ferma a Firenze. E' un anno felice da cui nascono, fra l'altro, la tragedia romantica Ricciarda e i purissimi frammenti del poemetto non mai compiuto Le Grazie. Ma gli eventi precipitano, la campagna di Russia segna la caduta di Napoleone. Nel 1813 il Foscolo è ancora a Milano e riprende il servizio militare sperando di collaborare alla salvezza del regno italico; ma invano. Gli  austriaci, nuovi padroni, gli fanno grandi promesse: gli lasciano il grado nell'esercito, gli offrono possibilità letterarie; Ugo esita prima di prendere una decisione. Ma, nel marzo del 1815, un giorno prima di prestare giuramento al pari degli altri ufficiali dell'esercito italiano ormai soppresso, fugge da Milano e ripara in Svizzera. Da questo momento è un esule.

Rimane in Svizzera per circa un anno, quasi in miseria, lo soccorrono alcuni amici, fra cui Silvio Pellico, e la "donna gentile", ossia Quirina Mocenni Magiotti. Nel 1816 passa in Inghilterra, e qui nuove possibilità sembrano offrirglisi: Ugoè l'uomo del momento, l'alta società lo accoglie, gli editori compensano lautamente i suoi scritti. egli ritrova una figlia naturale, Floriana, avuta nel 1805 da una ricca inglese, e pensa di ritirarsi con lei in una villa che si fa costruire. Invece avviene improvviso il tracollo: l'ondata di fortuna è passata, i creditori non danno tregua, la villa viene venduta, padre e figlia sono in miseria. Ugo raccoglie le sue ultime forze per resistere dando lezioni, facendo traduzioni, ma ormai è logorato, e muore a soli quarantanove anni il 10 settembre del 1827.

Il temperamento appassionato e impulsivo, le sue crisi di malinconia, la sua avidità di forti sentimenti facevano del Foscolo un romantico. La sua cultura, il suo gusto, la sua continua nostalgia di bellezza ellenica lo portavano al classicismo. E' stato detto che fu un romantico in forme classiche, e la definizione è sostanzialmente esatta.

Egli espresse il tormento interiore del romanticismo, le sue incertezze, il suo dramma, nel clima di raffinata perfezione proprio degli scrittori greci e latini. Ma, come tutte le valutazioni dei valori umani, rimane approssimativa. Con le Ultime lettere di Jacopo Ortis, la storia di un giovane che muore suicida per un infelice amore e per il fallimento dei suoi sogni patriottici, egli diede all'Italia il primo romanzo, ossia la prima espressione di letteratura romantica, e, in egual tempo, la prima affermazione di una moderna prosa italiana, spesso esaltata e perfino retorica ma, talora di un'intensità che non fu in seguito superata nemmeno dai nostri maggiori.

Con il carme Dei Sepolcri, in cui il ricordo delle glorie passate e dei grandi estinti viene celebrato come incitamento e nutrimento della vita attuale, il Foscolo, in un clima di limpida grandezza omerica, esprime con perfetta misura l'appassionata rievocazione dei romantici. Nei frammenti del poemetto Le Grazie crea quadri di pura bellezza ellenistica, forse la più felice espressione letteraria dello spirito neoclassico che dominava l'epoca.


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Francesco Petrarca (1304-1374)

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Se Dante concluse il Medioevo, Petrarca iniziò una nuova epoca: quella che sarà il Rinascimento. Ma seguiamo più da vicino questa personalità singolare che segna il passaggio fra due epoche.

La famiglia del Petrarca proveniva da un paese del Valdarno, l'Incisa. Suo padre, messer Petracco, esercitava a Firenze la professione di notaio, tradizionale nella famiglia., e lo troviamo appunto notaio dei priori fra il 1300 e il 1301, nel periodo in cui Dante fece parte di questo collegio. Anche lui di parte bianca, aveva previsto i tempi duri che si avvicinavano e aveva mandato ad Arezzo la moglie, Eletta Canigiani, dove la raggiunse quando fu bandito, come Dante, nel 1302. E ad Arezzo, il 20 luglio del 1304, nasceva Francesco. Il nome del poeta doveva essere Francesco Petracco; più tardi egli lo avrebbe latinizzato in Petrarca, dandogli il significato di "arca di pietra".

Il fanciullo trascorse i primi sei anni di vita all'Incisa, dove Petracco aveva dei possedimenti. Nel 1310 il padre passò a Pisa, sperando di incontrare là Enrico VII e di poter rientrare a Firenze con l'aiuto dell'imperatore; ma invano. Non molto tempo dopo, la famiglia si trasferì ad Avignone, in Provenza, divenuta ormai sede della corte papale, ma, probabilmente per la difficoltà di trovare un alloggio conveniente  nella città affollata, la madre, con Francesco e il fratello minore Gherardo, si sistemarono in un paese vicino, Carpentras. Verso i quattordici anni, Francesco passò all'università di Montpellier per studiare legge, ma la sua natura lo portava alla poesia. Invece di applicarsi sui testi di diritto, fece di tutto per procurarsi opere dei poeti e degli scrittori latini, finchè il padre, irritato, un brutto giorno glieli buttò tutti nel fuoco.

Dopo quattro anni, verso il 1322, Francesco, col fratello, veniva inviato a Bologna, per completare gli studi in quella celebre università. Ma, ancora una volta, si occupò assai più di letteratura che di leggi. Nel 1326 tornava ad Avignogne. Qui la situazione era cambiata. Sua madre era morta, suo padre era passato a nuove nozze, o forse morto, e lui, ormai maggiorenne e abbastanza provvisto di denaro, almeno per il momento, potè dedicarsi ai suoi studi preferiti e condurre una piacevole vita in quella cittadina dove, intorno alla corte pontificia, si erano raccolte famiglie nobili e ricche, amanti dei piaceri.

 Qui nell'aprile del 1327, nella chiesa di Santa Chiara, vide una dama che lo colpì profondamente, forse una figlia del cavaliere Audiberto di Noves, sposa di un ricco borghese di Avignone, Ugo de Sade, e se ne invaghì al modo provenzale, platonicamente, per una sottile esperienza dello spirito. Amore platonico ma tuttavia terreno, perhcè la donna del Petrarca, Laura, non è trasfigurata come la Beatrice dantesca e rimane donna, anche se inavvicinabile. E a Laura fu certo dedicata la maggior parte della produzione poetica di quel periodo, che però non è giunta a noi perchè il Petrarca, nella sua sempre più profonda ricerca di perfezione, la distrusse al pari delle sue prime prove poetiche del periodo bolognese. Frattanto il denaro non abbondava, e Francesco doveva provvedere a mantenersi, Il suo ideale sarebbe stato quello di una vita tranquilla, tra gli studi e la poesia, ma era anche quello un ideale platonico: in realtà aveva una spirito inquieto e desideroso di sempre nuove esperienze. Accolse dunque volentieri l'invito del suo vecchio amico Giacomo Colonna, divenuto vescovo, di seguirlo in Guascogna, a Lombez, sua sede episcopale. Cominciò così un perido movimentato al servizio dei Colonna, dapprima di Giacomo, poi di suo fratello, il cardinale Giovanni. Parlatore accorto e forbito, eloquente nei suoi scritti, poeta, il Petrarca aiutava i suoi protettori nella loro attività politica ma aveva sempre molto tempo libero per i suoi studi. Grazie ai Colonna, potè compiere, a partire dla 1333, lunghi viaggi nella Francia settentrionale, nelle Fiandre, in Germania, sempre attento a osservare uomini e cose e a cercare antichi codici della letteratura latina.

Quella ricerca andava interessando sempre più i dotti del tempo: erano i primi indizi di quell'amore per la civiltà classica che caratterizzerà il Rinascimento. Dei suoi viaggi Francesco mandava poi vivaci relazioni al cardinale Giovanni.

Nel 1337 il poeta poteva visitare per la prima volta Roma. La città, allora, non era bella, specialmente per un uomo del Medioevo. Le rovine dell'antichità, trascurate, coperte di vegetazione selvatica, sorgevano su terreni di terra malamente battuta, qua e là pezzati di erbe e di cespugli, dove spesso pascolavano le pecore; scarsi monumenti; misera la maggior parte degli edifici. Ma il Petrarca guardò a quelle rovine con occhi nuovi: vi scorse con entusiasmo le nobili tracce della grandezza di un tempo, e, insieme, sentì l'accorata pena di quella decadenza. Nel suo spirito vi erano già la chiara rievocazione dell'uomo rinascimentale e la commossa sensibilità del romantico.

Nell'agosto di quello stesso anno, sazio di cose viste, il Petrarca si ritirva infine nella solitudine di Valchiusa, presso la sorgente del Sorga, non lontano da Avignone, un soggiorno che gli fu sempre caro. Fu un breve periodo di pace attiva, nel quale furono meditate opere e maturarono ambizioni. Già poeta celebre, Francesco ambiva al massimo riconoscimento ufficiale, l'incoronazione con l'alloro dei poeti. E non trascurò nulla per ottenerla. L'offerta gli venne fatta a un tempo dall'università di Parigi e dal Senato di Roma; e il poeta accettò quest'ultima, e, per dare maggiore solennità alla cerimonia, volle prima recarsi a Napoli per subire una sorta di esame da parte del re Roberto. Nella Pasqua del 1341 venive incoronato in Campidoglio.

Tornò verso il nord col seguito di Azzo da Correggio, che si recava a Parma per prendere possesso di quella città, di cui era divenuto signore. E presso Parma, in Selvapiana, si trattenne qualche tempo per portare a termine l'opera che più gli premeva, l'Africa. Ma, nel 1342, è ancora ad Avignone, chiamato là dal cardinale Giovanni, e le brighe della corte pontificia lo riprendono. Tuttavia la sua straordinaria vitalità lo spinge a nuovi studi: in particolare quello greco, di cui tuttavia non riuscì mai a impadronirsi. Intime inquietudini lo inducono a ripegarsi su di sé e ne nasce un breve trattato latino, Il mio segreto. Nel 1343 è inviato alla corte di Napoli, con un incarico del cardinale Giovanni. Di ritorno si ferma a Selvapiana; ma la pace di un tempo è scomparsa, Parma è stata lasciata da Azzo da Correggio e, contesa fra gli Este e i Visconti, è cinta d'assedio. Il poeta si rifugia a Verona, presso gli Scaligeri, e ha probabilmente incarichi per giungere a pacificare i contendenti. Nel 1345 è ancora ad Avignone di dove ogni tanto ripara a Valchiusa: è di questo periodo il Carme bucolico, in latino.


Nel 1347 un ardente popolano, Cola di Rienzo, tenta di restaurare a Roma l'antica repubblica. Tutto preso dalla grandezza di Roma, scontento di vedere la corte papale prigioniera della Francia in Avignone, il Petrarca si entusiasma e ha fede in Cola di Rienzo, col quale intreccia una copiosa corrispondenza. Ne segue un raffreddamento col cardinale Giovanni, contro la cui casa si è volto Cola. Verso la fine di quell'anno Francesco lasciava Avignone per recarsi a Roma, ma, in viaggio, gli giunge la notizia della caduta del trìbuno. Dopo un breve soggiorno a Verona egli si ritirava allora a Parma. E qui seppe che la pestilenza scoppiata ad Avignone aveva fatto due vittime che tanto avevano influito sulla sua vita: Laura e il cardinale Giovanni.

Sembrava deciso a stabilirsi a Parma, ma la sua irrequietudine non era ancora placata. Nel 1349 è a Padova, alla corte di Giacomo Novello da Carrara, preso ancora in un'attività diplomatica che lo fa vagare a Ferrare, a Mantova, a Verona, a Firenze, a Roma. A Firenze conosce un suo ammiratore, Giovanni Boccaccio. Poi torna a Parma e a Padova, dove giunge il Boccaccio a offrirgli, a nome della Signoria fiorentina, una cattedra nello Studio, l'università che si voleva far risorgere a Firenze. Nel 1351 è ancora ad Avignone. Ma l'ambiente gli è ormai ostile. Nel '53, egli lascia per sempre questa città, torna in Italia e, per alcuni anni, si ferma a Milano, presso i Visconti, che gli affidano importanti incarichi. Nel 1361 è ancora a Padova; l'anno successivo a Venezia, dove la Repubblica gli dona una bella casa sulla Riva degli Schiavoni. Vorrebbe e potrebbe fermarvisi, ma, a cianquatasette anni non ha ancora superato l'irrequietudine giovanile; incarichi diplomatici e politici lo spingono a varie riprese a Milano, a Pavia, a Padova. Infine, nel 1370, si ritira sui colli Euganei, ad Arquà, in una villetta, confortato dalla presenza della sua figlia naturale Francesca, del marito di lei e dei loro due figlioletti. Adesso, per la prima volta, il vecchio poeta gusta una vera vita familiare, amareggiata tuttavia dalla morte di uno dei nitpotini, a due anni, e interrotta da altri viaggi. Si spegne nella notte tra il 18 e il 19 luglio del 1374 e viene sepolto presso la sua casa ad Arquà.


L'opera letteraria del Petrarcaè vasta e, per la maggior parte, è scritta in latino. Il poeta era convinto che proprio alla produzione latina fosse affidata la sua fama, ma si ingannava. Il poema l'Africa, sua opera prediletta, con il quale, cantando le imprese di Scipione l'Africano, credeva di emulare Virgilio, è sostanzialmente mediocre. Migliori le dodici egloghe del Carme bucolico, pure di ispirazione virgiliana, e le epistole poetiche, indirizzate ad amici. Le opere latine in prosa sono compilazioni erudite o saggi moraleggianti, oltre a una vasta raccolta di lettere. Ma la grandezza del poeta non è qui.


L'opera che costituisce la sua gloria è il Canzoniere, ossia la raccolta delle sue poesie in volgare, alle quali, sebbene ostentasse di considerarle come cosucce da poco, dedicò per tutta la vita un paziente lavoro di revisione e di lima. Sono per lo più poesie d'amore dedicate a Laura, vivente e morta: una Laura che non è figura ideale e idelalizzata, ma donna reale, anche se irraggiungibile, e poi, dopo la morte, figura amica con cui il poeta si confida, sentendola sempre più sua e viva adesso che non è più in vita.

Per la prima volta, col Petrarca, appare una poesia che, senza tentare slanci mistici, esprime il segreto del cuore umano e si ispira ai più intimi moti, alle più varie reazioni di una sensibilità delicatissima. Questo clima poetico è tutto dominato da una pacata tristezza, da una continua ricerca di pace che non è inoperosità o tranquillo benessere, ma superamento di ogni inquietezza, sereno dominio dell'esistenza. E il tutto si esprime in un linguaggio splendido e terso, forse il più puro della nostra poesia. Quando però il poeta volle imitare Dante trasfigurando Laura, nei Trionfi, una sorta di quadri allegorici, fece opera piuttosto fredda, tutta affidata alla maestria del verso, indiscutibilmente meno sentita che non le altre.

L'influenza del Petrarca, a differenza di quella di Dante, fu enorme e non solo in Italia: tutto il Rinascimento ne fu soggetto e anche i secoli successivi ne risentirono. Ma il cosiddetto "petrarchismo" colse solo la splendida estriorità della poesia petrarchesca. Più importante fu il suo insegnamento nell'invitare la poesia successiva all'approfondimento psicologico e allo studio degli stati d'animo più segreti.




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Giacomo Leopardi

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Nel campo della poesia lirica italiana la figura più importante dopo il Petrarca, è quella di Giacomo Leopardi. Egli nacque a Recanati il 29 giugno 1798. L'ambiente familiare in cui Leopardi crebbe non era certo il più felice e adatto per un bambino: vecchio e cadente il palazzotto avito, austero e intransigente il carattere del padre, il conte Monaldo; la madre, la marchesa Adelaide Antici, seguiva con fanatismo e arida austerità le pratiche religiose, ma si estraniava sempre più dai figli, costringendoli a vivere quasi in clausura. In questa severa atmosfera trascorse l'infanzia di Giacomo, fratello maggiore di Carlo e di Paolina, quella dolce fanciulla che sarà in seguito l'unica persona della famiglia a incoraggiarlo e a comprenderlo.

Un ex-gesuita venuto dal Messico, Giuseppe Torres, fu il primo maestro del fanciullo che non era affatto, agli albori della vita, quell'essere deboluccio e curvo che le litografie ci hanno fatto conoscere: Giacomo era esuberante, persino prepotente, smanioso di giochi, poco incline allo studio. Ma quando cominciò ad apprendere i basilari rudimenti della cultura, si affezionò a questa profondamente, e il maestro succeduto all'ex-gesuita, don Sebastiano Sanchini, ebbe motivo di meravigliarsi per la straordinaria precocità del suo allievo che, appena undicenne, scrisse la sua prima poesia, un sonetto intitolato La morte di Ettore e tradusse il primo libro delle Odi di Orazio.

A dodici anni compose i Re Magi e il Paradiso terrestre cimentandosi con i versi sciolti e la sesta rima, e poi, quattordicenne, tradusse in ottave l'Arte poetica di Orazio, applicandosi in seguito allo studio del greco con tanto impegno che, dopo quattro mesi era, già in grado di scrivere in greco una lettera allo zio, marchese Carlo Antici.

Successivamente si dedicò allo studio dell'ebraico, mentre scriveva una Storia dell'astronomia e poi un Saggio sugli errori popolari degli antichi. A diciassette anni, l'età in cui gli altri adolescenti pensano poco allo studio e molto al divertimento, egli passava le giornate nella ben fornita biblioteca paterna, e trovava sollievo all'austera vita familiare nella lettura di opere filosofiche, storiche, scientifiche, e nella stesura di pagine su Ermogene, Dionigi di Alicarnasso, Dione Crisostomo, Esichio, ecc.

Questa eccessiva applicazione allo studio, però, gli rovinò la salute, lo incurvò, furono i primi sintomi di quell'infermità che a poco a poco deformò il suo corpo e gli diede sofferenze che divennero sempre più gravi. Tuttavia egli non mutò sistema di vita, e continuò a scrivere, non più opere di erudizione, ma traduzioni limpide e fedeli: quelle degli Idilli diMosco, della Batracomiomachia, del primo libro dell'Odissea, del secondo dell'Eneide, della Titanomachia di Esiodo. Poi, come se tutto il lavoro svolto fino a quel momento fosse stato solo una preparazione, si decise a comporre i Canti, dopo aver dettato in terzine l'Appressamento della morte e Le Rimembranze, un delicato idillio, nel quale vibra il suo inconsolabile pianto per la vita che egli sentiva sfuggirgli.

 Ben presto il Leopardi raggiunse una certa notorietà come poeta, ma toccò a Pietro Giordani il vanto di essere stato fra i primi a intuire il suo genio. Fra Pietro e Giacomo ci fu un frequente scambio di corrispondenza, che consentì al giovane poeta di aprire, finalmente, l'animo a un uomo che lo capiva e ammirava.

Nel 1818 la visita di Giordani diede occasione a Giacomo di recarsi con lui a Macerata, ove ebbero un colloquio con alcuni Carbonari; e tale colloquio non fu certo estraneo alla ispirazione che indusse il ventenne Leopardi a comporre le due canzoni all'Italia e Sul monumento di Dante, l'una e l'altra avvampanti di amor patrio, in netto contrasto con le idee del conte Monaldo che, incapace di considerare come un fatto spontaneo le nuove idee politiche del figlio, incolpò il Giordani di aver inculcato in Giacomo le proprie convinzioni e di avergli fatto perdere la fede religiosa.

E' probabile che il Giordani non abbia avuto una parte così rilevante nel mutamento di Giacomo, il quale, intanto, era tormentato da un amore non corrisposto: si era innamorato della cugina Geltrude Cassi che per qualche giorno era stata ospite di Monaldo e di Adelaide. Quando la cugina ripartì, il poeta si sentì più infelice di prima. Quella doveva essere la prima delusione d'amore per lui, che in seguito s'innamorò di una popolana, una certa Brini, quindi di Teresa Fattorini, che gli ispirò i famosi versi della poesia A Silvia, composta qualche tempo dopo, negli anni 1827-1828, e in seguito della nobile Broglio, senza trovare mai rispondenza ai suoi sentimenti.

Ma tutta questa amarezza lo portò ad approfondire le proprie idee sulla poesia, a cercare nel verso l'oblio dei suoi dolori e il conforto morale, e quando, sul finire del 1822, egli riuscì ad allontanarsi da Recanati, il "natio borgo selvaggio", per trasferirsi in casa dello zio Carlo Antici a Roma, sperò di trovare la felicità. Invece il contatto con la vita frivola della nobiltà e lo stato di abbandono in cui vide i gloriosi monumenti della potenza romana, accrebbero ancora la sua disperata solitudine.

Ritornò a Recanati nell'aprile del 1823 e, dopo appena cinque mesi di soggiorno a Roma, riprese a lavorare alacremente, e, verso la metà di luglio del 1825, partì per Milano, dove lo aveva chiamato l'editore Stella. Ma la metropoli lombarda non gli piacque, e preferì andare a Bologna, dove visse con il misero assegno che ogni mese  l'editore gli anticipava, e con qualche lezione. Da Bologna si trasferì a Firenze, quindi a Pisa; ma improvvisamente una dolorosa oftalmia gli impedì di lavorare, e perciò nel 1828 ritornò a Recanati. Proprio in questo periodo creò i suoi "grandi idilli": Le Ricordanze, La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio, Canto notturno di un pastore errante nell'Asia e il Passero solitario. 

Soltanto nel maggio del 1830 potè lasciare definitivamente l'austera casa paterna, e andare a Firenze, ove curò l'edizione dei Cantiche uscirono nell'aprile del 1831 e che fecero convergere su di lui l'attenzione dei più nobili ingegni d'Italia.


Nel periodo fiorentino, Giacomo strinse amicizia con Antonio Ranieri, esule napoletano, che gli era stato presentato da Alessandro Poerio, e che lo condusse a Roma e, dopo l'esilio, a Napoli. Durante il soggiorno a Firenze, il poeta ebbe un'altra tremenda delusione d'amore a causa della frivola signora Fanny Targioni-Tozzetti.

Compose in questo periodo i suoi più grandi canti d'amore: Il pensiero dominante, Amore e Morte, Consalvo, A se stesso e Aspasia, il "canto dell'inganno estremo". La sua salute peggiorava sempre più, ma egli sperava in un giovamento dal mite clima di Napoli. Si avvide però di essersi illuso, e trascurando la cerchia di altri spiriti che il Ranieri gli aveva fatto conoscere, si appartò sempre più. Appartengono a quel periodo la Ginestra, scritta nel 1836 nella villetta del Ranieri ai piedi del Vesuvio, e l'ultimo suo canto, Il tramonto della luna, che egli compose poco prima della sua morte, avvenuta il 14 giugno 1837.

Infieriva, in quelle settimane, a Napoli, il colera, e solo la costanza del Ranieri impedì che la salma del poeta fosse gettata nella fossa comune. Il fedele amico riuscì a seppellirla di nascosto nella chiesa di San Vitale Fuorigrotta, ove rimase fino all'anno 1939, quando fu tolta per essere trasferita nella tomba di Virgilio, presso Posillipo.

La vita di Leopardi si svolse senza episodi di rilievo, tanto che il poeta stesso la definì "la storia di un'anima". Un'anima bersagliata dalla sorte, incompresa dai familiari e spesso anche dai critici di poco conto, allarmati dal suo pessimismo a tal segno che, quando egli partecipò con le Operette morali a un concorso bandito dall'Accademia della Crusca, ebbe due soli voti, mentre tutti gli altri andarono a Carlo Botta per la Storia d'Italia dal 1789 al 1814.

Debole e curvo, afflitto dall'asma, costretto a lavorare duramente per sottrarsi al'egoismo del padre e all'indifferenza della madre, Giacomo Leopardi fu portato naturalmente al pessimismo anche per la mancanza d'un amore che lo confortasse e per le precarie condizioni finanziarie in cui spesso si trovava. Ma le sue poesie hanno ricavato dall'amarezza del suo animo quella potenza, spontaneità e originalità che le rendono sublimi.

 
 
 
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Charles Dickens (1812- 1870)

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"Charles Dickens sarà un grande romanziere" pronosticavano familiari e maestri; e Charles non li deluse. Infatti, giovanissimo, già si affermava  tra i migliori scrittori inglesi.

Si dice che, nelle cittadine di mare, dove le sicure anse del porto ospitano ogni giorno navi e uomini provenienti da terre lontane, la fantasia si accenda più facilmente. Furono forse la vista di quelle navi condannate ad un perpetuo  vagabondaggio ed i racconti di quegli uomini che avevano eletto a loro patria il mondo intero, che fecero nascere nel piccolo Dickens il desiderio di tuffarsi nell'avventura.

Nato, nel 1812, nella cittadina di Landport in una famiglia di piccoli impiegati, Charles, fanciullo gracile e malaticcio, dagli occhi vivissimi e dalla memoria prodigiosa, andava vagheggiando, sulle pagine dei grandi romanzieri inglesi, viaggi interminabili lungo le strade del mondo e avventure ricche di imprevisto, di cui lui solo, e non altri, sarebbe stato il protagonista.

Costretto, spesso, all'immobilità da una malattia nervosa che lo rendeva pressochè paralizzato, il bimbo cresceva in un mondo di sogni e, nell'impossibilità di vivere la vita che avrebbe desiderato, attingeva consolazione alle inesauribile fonti della sua fantasia.

A scuola, gli insegnanti lo consideravano uno scrittore in erba, meravigliandosi della vastità delle sue letture e della vivacità delle sue prime  novelle. "Charles sarà un grande romanziere" pronosticavano con orgoglio familiari e maestri, e il piccolo malato andava tessendo aurei progetti per il futuro.Troppo presto la vita, con i suoi dolori e le sue ansie, distolse Charles dal suo fantasticare: un giorno, il padre, indebitato sino al collo, secondo una rigida e disumana legge inglese, fu rinchiuso in carcere per debitori di Londra. Charles assaporò allora, in tutta la sua crudezza, la miseria e forse anche la fame: costretto dalla necessità ad allontanarsi dalla famiglia, visse tra le sordide pareti di una pensione per ragazzi dove il vitto distribuito durante il giorno bastava appena per un pasto, conobbe la grossolanità e l'ignoranza dei compagni di stenti, lavorò infine come garzone in una fabbrica di lucido da scarpe. Unica distrazione, triste distrazione, era la visita al padre, la domenica, in compagnia della dolce sorella Fanny: quante conoscenze strane egli dovette fare in quel luogo, a quanti dolorosi episodi egli dovette assistere, è facile immaginare.


Tuttavia, anche negli anni più duri, l'amore per lo scrivere, per il leggere, per il sognare ad occhi aperti, non l'abbandonò. Charles non aveva più nessuno che prendesse a cuore la sua educazione, ma si istruì da solo, studiando e leggendo nello ore serali, sorretto dalla fede e dalla speranza in un avvenire migliore. E la serenità venne dopo due anni, quando il padre, scontata la pena, ottenne un posto di stenografo al parlamento. Sotto la sua guida, Dickens, appena diciassettenne, fece il suo ingresso in parlamento, dapprima al banco degli stenografi, poi a quello dei giornalisti. Non durò fatica ad affermarsi: la miseria non l'aveva vinto, l'aveva invece maturato, e pubblico e colleghi ammirarono subito l'impeto di quel giovane scrittore che, sotto lo pseudonimo di Boz, pubblicava, su giornali e riviste, resoconti di viaggi, novelle e romanzi a puntate.

Charles amava il suo lavoro e il suo pubblico con la stessa intensità con cui amava la vita, il movimento, le situazioni nuove. Il matrimonio e la famiglia numerosa non valsero a fargli cambiare tenore di vita: si recò, infatti, con la moglie, i 10 figli e la corte di servitori, in Italia e per ben due volte negli Stati Uniti.

Recatosi in America una prima volta nel 1842 per un ciclo di conferenze, Dickens riferì, in numerosi articoli ed in lettere agli amici, le sue impressioni sulle città americane, sulle cascate del Niagara, sul suo viaggio lungo il Mississippi.

Morì relativamente giovane, a 58 anni, nel 1870, compianto da letterati, da giornalisti e da un immenso pubblico di lettori. Accolsero la sua salma le vaste navate dell'Abbazia di Westminster, ed essa fu deposta fra quelle degli uomini che, con il loro ingresso, resero grande l'Inghilterra.

Un critico inglese ebbe a dire di lui che se, ad un tratto, l'Inghilterra venisse distrutta da un nubifragio e solo rimanessero le opere di Shakespeare, di Byron e di Dickens, con essi, nelle loro opere, rimarrebbe l'essenza dello spirito inglese. E forse è vero: l'Inghilterra dell'Ottocento ha trovato in Dickens lo scrittore che fedelmente l'ha descritta. Il popolano arguto dalla risposta pronta quanto mai, la zitella acida sempre circondata da gatti e canarini, il vecchio celibe ricco di manie, l'astuto imbroglione lesto di mani e di parole, il parlamentare tronfio pieno di convenevoli, sono personaggi che popolano i suoi romanzi, ma sono altresì macchiette caratteristiche della vecchia Inghilterra.

Forse l'autore se li trovò a fianco nelle piazze e nelle strade durante i suoi viaggi di servizio, forse conversò con loro nelle vecchie diligenze che lo sballottavano da una parte all'altra dell'isola, forse li scorse nei clubs, nelle corti di giustizia e nelle sale del parlamento.

Sensibile all'umore dei suoi lettori, non era raro che mutasse la trama dei suoi romanzi per compiacerli, che introducesse nuovi personaggi per divertirli, che trovasse un lieto fine per congedarli soddisfatti.

 Si deve appunto al consenso del pubblico la stesura del suo primo romanzo:"Pickwick". Uscito a dispense nel 1836, fu in seguito notevolmente arricchito di personaggi nuovi e di situazioni divertenti, nonchè illustrato dai maggiori caricaturisti dell'epoca, si che, le avventure del protagonista, un dabben'uomo panciuto e occhialuto, ingenuo e sentimentale, compìto e sempre gentile che, per un divertente equivoco, viene accusato di violazione di promessa di matrimonio dall'ormai acida padrona di casa e subisce ogni sorta di peripezie giudiziarie, meritano a ragione, di essere considerate dai critici, una delle creazioni più originali e divertenti del nostro scrittore.

 Dopo il primo successo letterario, Dickens, abbandonato il suo impiego di stenografo, si dedicò completamente alle lettere. Ed ecco uscire, accolto dalla medesima approvazione, "Oliver Twist"; il piccolo Oliver, nato in un asilo di mendicità, trascurato da chi ne dovrebbe aver cura, cade in mano ad una banda di delinquenti capeggiati dall'ebreo Fagin, "maestro" di una variopinta schiera di ladruncoli. Dopo molte traversie, Oliver scopre il mistero della sua nascita, e trova la ricchezza e l'affetto di una dolce e amabile zia: Rosa. C'è qualcosa di autobiografico in questo romanzo: nella prigione dove il padre aveva vissuto, Charles conobbe le losche figure che s'agitano nei bassifondi londinesi, dipinti qui con crudo realismo.

Dopo "Nicolas Nikleby" e il "magazzino di antichità", è la volta dei "racconti di Natale", ricchi di indignata protesta contro i vizi grandi e piccini che infestano la società d'ogni tempo. Triste è il Natale dei ricchi-pare insegnare lo scrittore attraverso queste belle pagine- che, chiusi nel loro egoismo e nella loro avarizia, hanno perso la capacità di godere innocentemente, con serenità di cuore, la bellezza di questa festa familiare: solo i poveri e coloro che compiono una buona azione, possiedono l'immensa ricchezza d'esser felici, in pace con gli altri e con se stessi.


Il "Davide Copperfield" fu forse il romanzo più amato dall'autore, perchè riflette molto della sua vita: Davide, privato del padre in tenera età, è costretto ad allontanarsi dalla madre e lavorare come garzone in una fabbrica: quando la mamma, risposandosi, sente in lui, un piccolo estraneo, il bimbo viene inviato in un triste collegio...


Giovanotto si innamora di Dora; ma poco tempo dopo le nozze, la sposina-fanciulla muore, lasciando Davide nel completo accasciamento. Solo Agnese, la fedele, amica e consigliera dei suoi anni d'infanzia, gli ridarà la serenità e l'affetto di una vita familiare.

Intorno al protagonista si agitano personaggi minori ma ugualmente umani e originalissimi: Pegotty, la fedele nutrice, Micawber, l'amico e protettore di molti anni più anziano ma ingenuo come un fanciullo che, sempre pieno di debiti, dinnanzi ad un punch caldo dimentica ogni affanno, e, infine, la zia Betsey, arcigna in apparenza  ma, a modo suo, buona.

 "La piccola Dorrit" e "Grandi speranze" furono altrettante tappe successive del suo cammmino verso la fama: Amy, che gli amici chiamano piccola Dorrit, trascorre la sua infanzia accanto al padre, imprigionato da molti anni nel carcere per debitori di Londra; mammina dolce e generosa, provvede ai fratelli e ai bisogni del genitore malato con instancabile spirito di sacrificio.

Un benefattore, Arturo, segretamente innamorato di Amy, riesce, attraverso un intricato susseguirsi di vicende, a far si che la famiglia Dorrit ritorni in possesso delle sue fortune: l'improvisa ricchezza sconvolge le tranquille abitudini della famiglia, che si dà ad una vita brillante, a viaggi, a sogni ambiziosi: l'unica che sia rimasta semplice e modesta come una volta è Amy che rinuncia al lusso della nuova vita per assisitere l'antico benefattore, caduto a sua volta nell'estrema povertà e rinchiuso nelle carceri per debitori.

Arturo sarà commosso di questo gesto rivelatore e quando un rovescio finanziario ridurrà Amy alla miseria di una volta, la piccola Dorrit e Arturo si sposeranno e trascorreranno felici una vita modesta, fatta di lavoro e di generosa abnegazione.


Anche "Grandi speranze" ha, come quasi tutti i romanzi di Dickens, per protagonista un orfanello, Pip, che, cresciuto sotto la sferza della sorella, si trova ad un tratto padrone di un'immensa ricchezza, lasciatagli da un galeotto evaso che il fanciullo, con tutta innocenza, ha aiutato. Si intreccia, con questa vicenda, quella di Miss Havisham, una isterica zitella che, fuggitole il fidanzato il giorno delle nozze, da vent'anni vive in una camera semibuia, vestita del suo abito di sposa e in contemplazione dell'ormai ammuffita torta nuziale; accanto a lei, cresce, nutrita da sentimenti di odio e di vendetta verso tutto il genere maschile, la bella Estella che, dopo aver innamorato di sè Pip, si sposa con un nobile ricco e brutale.

Dopo molti anni, Estella ormai vedova e Pip sempre innamorato si incontreranno di nuovo e nascerà finalemente fra i due l'amore corrisposto e le nozze saranno la lieta conclusione.

Si può dire che i romanzi di Dickens, per la ricchezza di personaggi, per la fertilità d'invenzione, per la moralità del contenuto, costituiranno sempre, non solo il documento di un'epoca,  ma una piacevole lettura per adulti e ragazzi.


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San Francesco d'Assisi (1182-1226)

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La figura di San Francescoè fondamentale espressione della religiosità medievale e, in particolare, della religiosità umbra, che si affermò, profonda e vibrante, nel XII e nel XIII secolo. Francesco nacque ad Assisi nel settembre del 1182 , o forse del 1181, figlio di un ricco mercante di panni, Pietro di Bernardone. La madre, madonna Pica, era una provenzale che Pietro, solito a viaggiare in Francia per il suo commercio, aveva sposato e condotto in Italia. La giovinezza di Francesco è gaia e spensierata. Ricco e amato dai suoi, il giovane ama i bei vestiti e la gioconda compagnia degli amici: gli piace eccellere e nella singolare generosità che mostra verso i compagni e verso tutti coloro che si rivolgono a lui nel bisogno, non manca una certa ambizione.

Ma la vita dei Comuni italiani è piena di rivalità e di lotte. A ventidue anni Francesco si trova fra le milizie di Assisi in guerra con Perugia, combatte ed è fatto prigioniero. E' una dura esperienza a cui segue, dopo la liberazione, una grave malattia; il giovane medita sul dolore e sulla vanità della vita, sente in cuore la necessità di prendere una nuova via, ma non sa ancora quale.

Un giorno del 1206 nella piccola chiesa di San Damiano, vecchia e in rovina, ha l'impressione che un'immagine sacra muova le labbra e gli imponga di restaurare l'antica cappella. E senz'altro si mette all'opera lavorando lui stesso e chiedendo l'aiuto dei passanti e dei vicini. E' animato da un ardore ancora confuso; in Assisi, quando lo vedono passare con le vesti sporche e in disordine e il volto scavato dalla fatica, lo credono pazzo. E il padre, che aveva fatto tanti progetti su di lui, irritato e sdegnato, lo chiude in casa: finchè non avrà messo la testa a posto non gli darà più un soldo.

Ma non è certo questo il mezzo per trattenerlo. Padre e figlio si presentano al vescovo di Assisi perchè giudichi chi ha torto e chi ha ragione fra loro. Pietro parla a lungo e con fuoco; Francesco, in silenzio, si spoglia dei suoi ricchi abiti rinunciando così ad ogni bene terreno, e chiede solo di essere lasciato andare alla ricerca della sua vera strada.

Così, nel 1207, a venticinque anni, Francesco lascia Assisi e giunge a Gubbio per prestare servizio nell'ospedale dei lebbrosi. Ma la chiesetta di San Damiano non è stata ancora del tutto restaurata, e il giovane torna là, dove ha avuto la prima intuizione del suo compito, per continuare i lavori. Non sa ancora quello che farà, ma attende  un nuovo cenno dall'alto mentre si estenua nella fatica.

Dopo San Damiano si volge a un'altra piccola chiesa presso Assisi, detta la Porziuncola, per rinnovarla a sua volta; e là un passo del Vangelo: "Andate e predicate..." lo illumina. E' il febbraio del 1209; da questo momento Francesco vede la sua via chiaramente: andrà a predicare la pace e l'amore fra gli uomini sempre in lotta. A poco a poco la sua serena umiltà, il suo candore e, insieme, la sua sicurezza interiore invitarono altri a unirsi a lui: Bernardo da Quintavalle, Pietro Cattani, Egidio. Predicavano il Vangelo per le borgate e le città dell'Umbria, come facevano gli antichi apostoli, raccogliendo il loro pubblico nelle piazze e nelle vie.

Quando furono in un certo numero, Francesco diede loro una prima regola di vita e presto si rese conto che la piccola comunità, per esercitare degnamente il suo compito, doveva avere l'appovazione e il riconoscimento della Chiesa. Ecco dunque Francesco avviarsi verso Roma, con i suoi compagni, e presentarsi al pontefice, il grande Innocenzo III. Il papa non aveva molta fiducia in quei poveracci che si presentavano con tanta ingenuità e tanto zelo; ma le parole di Francesco lo commossero, ed egli finì con l'approvare la sua semplice regola. Fu solo un'approvazione verbale; si narra che Francesco, appena avutala, si allontasse senza chiedere altro, mentre il pontefice lo richiamava: "O semplicione, dove vai? Ti accontenti della mia sola parola?". E che Francesco rispondesse che la parola gli bastava. Ma probabilmente Innocenzo III volle attendere prima di dargli un'approvazione scritta.

Adesso il maestro e i discepoli erano veri frati e potevano predicare anche nelle chiese. La comunità diveniva sempre più numerosa e adempiva con fervore al suo apostolato di pace. Gente perduta cambiava vita alle loro parole, vecchi nemici si conciliavano.

 Nel 1212 una giovinetta di Assisi, Chiara, chiedeva a Francesco di essere consacrata a Dio e, nella Porziuncla, riceveva da lui il saio e veniva poi accompagnata in un convento di suore. Ella avrebbe poi fondato  l'ordine delle Clarisse, il secondo ordine francescano. Ma il sogno di Francesco era adesso di predicare il Vangelo fra gli infedeli: i crociati andavano in Oriente con le armi; lui vi sarebbe andato con al sola sua parola e il suo amore.

Il suo entusiasmo gli impediva di vedere che una missiono simile, nel mondo musulmano, era fatalmente destinata all'insuccesso. Nel 1214 si imbarcava ad Ancona per raggiungere l'Oriente, ma una tempesta lo gettò sulle coste della Dalmazia costringendolo poi a tornare in patria. In un secondo tentativo giunse in Spagna, di dove aveva intenzione di passare il Marocco, ma, ammalatosi, dovette prendere ancora la via del ritorno.


Tuttavia non rinunciava alle sue aspirazioni. Nella Pentecoste del 1217, nell'adunanza generale dei suoi religiosi, organizzava l'opera di apostolato affidando a ognuno la provincia italiana in cui avrebbe dovuto operare, stabilendo missioni per i paesi d'Oltralpe e mettendo il prediletto frate Elia a capo di una missione che inviava in Siria. Questi missionari incontrarono difficoltà di ogni sorta dimostrando una tenacia eroica ma con scarsi risultati. Un'altra missione, inviata l'anno successivo nel Marocco, fu trucidata.

Francesco stesso, nel 1219, partiva per l'Oriente con i crociati. Giunto a Damietta, in Egitto, si presentò al sultano Malik al-Kamil per convertirlo; fatalmente non vi riuscì, ma il suo candore disarmò il sultano che gli concesse un salvacondotto con il quale egli potè visitare i luoghi santi della Palestina.

Francesco tornava in Italia nel 1220, a trentotto anni. La sua missione fra i musulmani era stata sostanzialmente negativa; per di più, durante la sua assenza, la disciplina nell'ordine era venuta meno per mancanza di regole precise. La comunità era divenuta più numerosa e richiedeva un'organizzazione più minuziosa che non fossero le consuete tradizioni di vita. Francesco elaborò dunque una nuova regola, non senza alcuni contrasti: nel suo zelo era portato ad affidarsi completamente alla provvidenza divina senza quasi preoccuparsi delle esigenze terrene, rifiutava il denaro, ordinava ai suori religiosi di procurarsi con il lavoro il pane quotidiano, era sicuro che l'amore fraterno, la purezza, la serenità interiore avrebbero sempre dato loro i mezzi di sostentamento.

Era una regola tutta fondata sui valori dello spirito, che il pontefice, Onorio III; appovò con una bolla nel 1223. Nella quaresima dell'anno successivo, Francesco si ritira nel suo favorito eremo, sul monte della Verna. E là, nella profonda meditazione sulle sofferenze di Cristo, egli vede aprirsi  nelle sue mani, nei suoi piedi, nel suo petto, le ferite del Redentore. E' il periodo più intenso della sua elevazione spirituale: la sua anima vibra all'unisono con tutto il creato, uno slancio di amore lo lega con tutte le creature, dall'uomo al più piccolo insetto. E nel 1225, in una capanna di frasche procuratagli da suor Chiara, e forse da lei stessa costruita, l'asceta, già debilitato nel fisico, crea quel canto, detto poi di "Frate Sole" o "delle creature", che rimane il più vivo documento del suo eccezionale slancio mistico.

Ma la fine è ormai vicina. La fragile costituzione di Francesco cede a tante penitenze e a tante fatiche, un male di oscura natura quasi gli impdisce di muoversi. Tutta avvolta di dolore rimane viva e lucida la sua serenità interiore, la sua inestinguibile pace. Trasportato nell'episcopato di Assisi, egli riesce ancora a conciliare due antichi avversari: il vescovo e il podestà della sua città; poi sentendo ormai imminente la morte, si fa portare in barella alla Porziuncola, centro della sua opera, e là si spegne, il 3 ottobre del 1226.

Fine


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Santa Chiara di Assisi (1193 – 1253)

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Esile e slanciata nella persona, celesti gli occhi, biondi i capelli come grano maturo, Chiara degli Offreducci, primogenita di Messer Favarone e di Ortolana , era  una fanciulla molto ammirata dai giovani di tutta Assisi. Era nata nel 1194, e toccava in quell'anno, il 1212, i diciotto anni: un'età che tutte le giovinette attendevano con trepidazione, giacchè era usanza che esse si fidanzassero giovanissime. Chiara però non pensava al matrimonio, nè l'attraevano le ricchezze e i fasti dei titoli nobiliari. Di questo, messer Favarone e soprattutto il potente zio Monaldo molto si preoccupavano, sembrando loro strano che essa non desiderasse  legarsi con qualche nobile casata del contado. Ed anche Ortolana molto se ne doleva: dopo Chiara, infatti le restavano ancora tre figlie a cui pensare, Agnese, Pendente e Beatrice; ma sino a che la maggiore non si fosse maritata (così voleva l'usanza) esse avrebbero dovuto rimanere fanciulle.

Chiara non pensava alle nozze. In tenera età, quando appena toccava i nove anni, ritornando ad Assisi dopo un lungo soggiorno a Perugia, dove con la famiglia aveva dimorato per sfuggire alle contese di fazione che affliggevano in quel tempo la Toscana, la sua immaginazione infantile era sta colpita dal fascino di un giovane, che figlio di un ricco mercante, aveva improvvisamente rinunciato a tutti i suoi beni per darsi in perfetta letizia ad una santa vita di povertà. Questo giovane si chiamava Francesco, e molti in Assisi ancora lo schernivano. Soleva egli, infatti, andarsene per le borgate con un codazzo di mendicanti,cantando a voce alta le lodi del Signore e proclamandosi innamorato di Madonna Povertà: che egli fosse un Santo, ai ricchi e ai nobili non sembrava. Lo giudicavano piuttosto un pazzo, un probabile nemico che, facendosi amico di tutti gli straccioni della contrada, avrebbe potuto un giorno minare l'autorità dei potenti. Ma il puro cuore di Chiara, nella sua innocenza di bimba, aveva subito intuito l'eroismo di Francesco. L'eco delle sue predicazioni giungeva sino alle sale di palazzo Offreducci, dove la fanciulla cresceva apprendendo tutto ciò che ere utile ad una futura nobildonna e seguendo nello stesso tempo l'esempio del Poverello. Come Francesco, ella prese ad amare i poveri, ad impietosirsi sulle miserie degli afflitti, a preferire le umili bellezze della natura e della semplice vita ai tanti privilegi della sua condizione.

Ad Assisi, con l'andar degli anni, tutti vennero a conoscenza della sua bontà, e molti furono i poetici appellativi con i quali essa fu chiamata dai poveri da lei protetti. Ma ora, nel 1212, le sollecitazioni del padre e dello zio perchè Chiara si accasasse si erano fatte più pressanti, e la fanciulla, non sapendo cosa decidere della sua vita, era in grande tribolazione. Accadde così che, dopo tanti anni di muta ammirazione, Chiara degli Offreducci decise un giorno di recarsi da Francesco per chiedergli consiglio. La giovane dama vestita di seta e gioielli si prostrò dinanzi al Poverello ricoperto di logoro saio, e a lui, di appena dodici anni più anziano ella offrì la sua giovane esistenza, perchè come una "tenera pianticella" egli ne prendesse cura. E Francesco, con la preveggenza dei santi, vide in lei la pia "sorella" che l'avrebbe aiutato nella sua missione.


Venne la domenica delle Palme. La mattina Chiara si recò al Duomo per ricevere dalle mani del Vescovo l'olivo benedetto. Inginocchiata dinanzi all'Altissimo, essa riconfermò a Dio ciò che aveva promesso a Francesco; poi, quando calò la notte, sgusciando non vista dal palazzo, raggiunse, in compagnia di un'amica, Santa Maria degli Angeli. Nel silenzio della piccola Chiesa di campagna, al lume incerto di poche candele , l'attendeva il Poverello con i più fidi suoi seguaci. Chiara s'inginocchiò dinanzi a lui sulla nuda terra, e con la dolce voce trepidante di commozione, giurò eterna fedeltà alle regole di purezza, umiltà e povertà. Una rozza tonaca ricoperse le vesti sontuose e un velo nero le cinse la fronte. Recisi dalle mani di Francesco, caddero i biondi capelli. Non più una nobildonna stava dinanzi all'altare, ma una suora: la prima Suora del II Ordine Francescano o delle Suore Clarisse.


Suor Chiara non ritornò quella notte a palazzo nè più vi mise piede, anche se il giorno dopo tutti i parenti, capeggiati dal potente zio Monaldo, si recarono in armi al convento delle suore di San Paolo, dove Chiara aveva chiesto temporanea ospitalità, pretendendo l'immediato ritorno della fanciulla. Quattro giorni dopo, un'altra giovane donna bussava alla porta del convento chiedendo di esservi accolta: era Agnese, la sorella quindicenne che secondo la narrazione di Tommaso da Celano, era riuscita a vincere l'inflessibile volontà dello zio Monaldo grazie ad un intervento miracoloso di Chiara. Dopo lei vennero altre fanciulle, nobili e popolane, e Chiara, come già Francesco aveva fatto con i suoi seguaci, tutte accolse come sorelle.

Francesco, intanto, non aveva perso tempo e, con l'aiuto dei francescani, aveva ultimato la riparazione di una chiesetta, da tempo chiusa al culto: ciò per preparare un'adeguata dimora per quel piccolo stuolo di pie fanciulle, che l'ammirazione popolare già aveva preso a chiamare familiarmente "povere dame". La chiesetta di San Damiano, sorgente in mezzo agli ulivi a valle della città, fu dunque  la loro nuova dimora: una dimora squallida di masserizie, cintata da un giardino grande come un fazzoletto, tropo fredda d'inverno e troppo calda d'etate, ma nella quale sempre regnò la letizia e l'amore, e nella quale sempre gli ammalati e i poveri trovarono conforto, panni e cibo. Vivendo di elemosine, sempre serene come se da gran tempo esse fossero abituate alla miseria, le pie fanciulle, ogni giorno più numerose, sapevano essere in tutto degne sorelle di Francesco e dei francescani; nulla anzi Chiara avrebbe voluto fare, senza il consiglio del Poverello.

Santa Chiara...una vita al servizio degli altri

...Ed egli, nei primi tempi, soleva spesso visitare la sorella diletta, per incoraggiarla e per compiacersi con lei della santità della sua vita. Dal 1214, per suo consiglio, Chiara assunse il governo del convento col titolo di badessa, ma la nuova responsabilità, lungi dall'allontanarla dai lavori più umili, fece sì che essa imponesse a se stessa una vita ancora più tribolata di quanto avesse condotta sino allora. Il suo fisico delicato, abituato a ben altra vita, ebbe però a risentirne, e, non ancora trentenne, Chiara cominciò ad essere afflitta da mali penosi.
Col passare degli anni, essendosi propagata la predicazione francescana anche in Oriente, crebbero per Francesco gli impegni, e Chiara, con grande dolore, lo vide a poco a poco diradare le sue visite. Nè questa fu la sua sola pena: le morì, infatti anche il padre, da lei molto amato, e, nel 1219, anche la sorella Agnese l'abbandonò per recarsi a Monticelli Fiorentino, dove Chiara aveva disposto che fosse fondato il secondo convento del II Ordine Francescano.
 
L'entrata in convento della madre che, rimasta vedova e altamente ammirando l'operato della figlia, volle prendere il velo, fu per Chiara un grande conforto. La bolla papale che confermava l'ordine francescano, emanata nel 1223 da Onorio III, fu accolta da Chiara con grande gioia: il momento della conferma del II Ordine Francescano ancora non era giunto, ma nel frattempo Chiara si rallegrava di tutto ciò che dimostrasse  la santità dell'operato di Francesco. E con quale gioia ella accolse il Poverello quando, nel 1225, al ritorno dalla Verna (Casentino) dove nella solitudine dei monti aveva ricevuto dal Signore l'estrema testimonianza delle Stigmate, egli volle riposarsi per qualche tempo in San Damiano! Furono quelli per Chiara i giorni più felici: ed anche per Francesco, che , nell'orticello della Chiesa, pieno il cuore di santa esultanza, compose un giorno quel "Cantico delle Creature" che gli avrebbe meritato il titolo di primo poeta italiano.
 
Ma furono forse  gli ultimi giorni felici: nel 1226 alla Porziuncola, Francesco morì, lasciando alla dilettissima sorella un carico di gravose responsabilità da sopportare senza più l'appoggio del suo consiglio. Memore delle sue promesse,  non si lasciò abbattere dalla solitudine,e negli anni che seguirono, sempre più si prodigò affinchè nuovi conventi di Clarisse venissero fondati e perchè il Pontefice  riconoscesse ufficialmente il loro ordine. Onorio II dimostrò più volte  la sua benevolenza, visitandola nel 1225 e ritornando per qualche tempo ad Assisi nel 1226; ma spettò a Innocenzo IV il compito di stipulare formalmente la bolla che confermava le regole dell'Ordine. Fu egli stesso a consegnarla a Chiara, il 10 agosto 1253, nella piccola cella di San Damiano, dove la dolce suora, ormai sessantenne, giaceva stroncata dal male. Il giorno dopo, fra il pianto di una moltitudine in cui si mescolavano signori e popolani, Chiara chiuse gli occhi per sempre: la sua missione terrena era compiuta, ed ora essa andava a raggiungere, nel gaudio eterno, il diletto fratello Francesco.

Le sue spoglie furono tumulate nella Chiesetta di San Giorgio, là dove sino a pochi anni innanzi aveva riposato la salma di Francesco. Due anni più tardi, nel 1255, la Chiesa la proclamava Santa, e i suoi concittadini, con un ultimo atto d'omaggio, erigevano per lei una chiesa, quella di Santa Chiara, vicino alla Basilica di San Francesco: perchè i fedeli sapessero onorare insieme coloro che concordemente e prestandosi vicendevolmente appoggio avevano santamente operato.
 
 
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Cappello ad uncinetto

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Cappello realizzato con lana tipo sport e un uncinetto grosso. E' un cappello facile da confezionare e si prepara in poco tempo. Può essere anche questa un'idea regalo per Natale o per altre occasioni. Il colore è naturalmente personalizzabile. Sarà bellissimo anche in bianco, o in rosso per chi ama i colori forti.

Per le spiegazioni: Clicca sulle immagini per scaricarle nel formato reale. Salvale sul tuo computer e aprile con il programma Paint.




















 
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Piccola Storia dell'Umanità

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Un'avventura unica quella che ci accingiamo ad intraprendere. Un'avventura che ci condurrà in epoche perdute nel passato, fra gli uomini oscuri che hanno faticosamente scalato passo dopo passo i gradini della civiltà, fra coloro che, guidati solo dalla fiamma vivida dell'intelligenza, hanno saputo lentamente imporre il loro dominio alla natura ostile.

La prima tappa di questo meraviglioso viaggio ci condurrà alla scoperta dei nostri progenitori. Saremo poi trasportati in altri mondi. Mondi di gente che ha fatto la storia. Come gli Egiziani, i Fenici, gli Assiri, i Maya, i Cinesi ecc...

Intraprendiamo dunque il nostro viaggio verso paesi ignoti e lontani.
Documentario su:
  1. I Progenitori
  2. Le prime conquiste
  3. Gli Egiziani
  4. Ittiti e Fenici
  5. Assiri e Babilonesi
  6. L'osola di Minosse
  7. La giovinezza dell'Ellade
  8. Letà aura della Grecia
  9. Alessandro il Macedone
  10. I Maya
  11. I Cinesi
  12. Gli Ebrei

Piccola storia dell'Umanità: I progenitori

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...>> Eccoci dunque trasportati in un paese ignoto, scabro e roccioso, chiuso all'orizzonte da cupe foreste che si ergono come muraglie; nella larga radura che ci sta di fronte, enormi animali si muovono pesantemente brucando felci e arbusti di proporzioni inusitate. Siamo all'inizio dell'Era Terziaria, sessanta o settanta milioni di anni fa: i colossali Dinosauri, gli Iguanodonti, gli Ittiosauri, dominano il mondo in cui l'uomo, almeno quale noi immaginiamo, non è ancora apparso. I mostri lottano ferocemente fra di loro per la sopravvivenza, minacciati di continuo da una natura spietatamente selezionatrice: e, prima che i nostri lontani antenati aprano gli occhi nel mondo, questi giganteschi protagonisti degli avi lontani saranno estinti.

Ora la scena cambia: in un attimo abbiamo superato oltre cinquanta milioni di anni, per portarci all'inizio dell'Era Quaternaria, quando la terra, dopo lunghi assestamenti, aveva ormai assunto un aspetto molto similie a quello odierno, ed i grandi ghiacciai scendevano come fiumi immensi dalle montagne europee. Gli animali e le piante sono in complesso assai somiglianti a quelli attuali. Compaiono gli elefantidi, gli equini, i bovini. Intanto si verificano delle imponenti migrazioni di animali che si allontanano da luoghi il cui clima è per loro sfavorevole, alla ricerca delle condizioni ideali di vita. Inoltre durante questo periodo scompaiono rapidamente, a causa delle variazioni climatiche e geografiche, quelle affinità che finora esistevano fra la flora americana e l'europea.

Alla soglia di una caverna, scorgiamo finalmente degli esseri nuovi, in cui tuttavia stenteremmo a ravvisare i nostri diretti antenati: piccoli, tozzi, con lunghe barbe, irsuti per le pelli di animali di cui sono ricoperti, muniti di clave di legno e di pietre appuntite. E' l'età Paleolitica, o prima età della pietra (circa 200.000 anni a. C. ): grossi orsi, felini giganteschi, terribili anfibi simili a coccodrilli insidiano di continuo l'esistenza di questi primi uomini, che da poco hanno preso coscienza della differenza che li separa dai feroci bruti che li circondano. Migliaia di anni, anni di terrore e di buio, dovranno trascorrere prima che l'uomo impari a scheggiare le pietre di cui si serve per la caccia, a riunirsi in gruppi più numerosi per far fronte ai pericoli sempre presenti; il fuoco, divino elemento caduto dal cielo, viene conservato con ogni cura in focolari di terra, perchè se si spegnesse nessuno sparebbe riaccenderlo.

Passano millenni: ora siamo in un'epoca relativamente vicina a noi, cira 50.000 anni or sono, sul finire del Quaternario. Gli scheletri che ritroviamo nelle caverne, i resti dei focolari abbruciacchiati, le selci scheggiate a punta di freccia, sono i documenti su cui noi ricostruiamo la storia delle nostre razze, dall'uomo Neanderthalense ( così detto per il luogo in cui fu trovato  il cranio) che ancora presenta nello scheletro alcune caratteristiche scimmiesche, all'uomo Aurignaziano (dalle caverne di Aurignac), molto simile a noi nelle proporzioni del corpo e già mentalmente evoluto.

...e la storia continua. 


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Come scegliere le tende

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In una casa le finestre sono come grandi occhi aperti a ricevere quanta più luce è possibile ma affinchè la stanza non appaia incompiuta o disadorna ogni finestra deve essere completata dalla propria tenda. 

La tenda è un complemento d'arredo estremamente importante perchè serve a regolare l'intensità della luce, attenuandola quando è troppo intensa. Perchè difende l'intimità della casa, nascondendo l'interno agli estranei. Perchè "riveste" in modo decorativo le finestre altrimenti sguarnite.

Le tende possono essere di molte specie e di molte forme: trasparenti od opache, moderne o in stile, lunghe o corte, a vetri o discoste da questi. La scelta dipende quasi esclusivamente dalle dimensioni, dall'arredamento e dal tono dell'ambiente in cui esse vanno inserite. Nello sceglierle tenete conto del vostro gusto personale non dimenticando però alcuni principi-base da seguire per non sbagliare:

in un soggiorno o in una stanza da pranzo non mettete mai delle tendine a vetro, troppo semplici e modeste, ma scegliete indifferentemente fra quelle lunghe e trasparenti o quelle "miste", composte cioè di una velatura interna trasparente  e di un tandaggio esterno opaco.

Tenda elegante
tenda classica












  

La tenda eleganteè un modello di tenda adatto a un soggiorno: si compone di una velatura interna, terminante con due balze, che potrà essere realizzata in voile o marquisette di cotone, e di un tendaggio esterno che sarà di raso turco, seta pesante o tessuto damascato. La mantovana a smerli è sottolineata da una passamaneria intonata al colore del tessuto.
La tenda classica è di bellissimo effetto pur essendo semplice e poco costosa, cosa da non sottovalutare. La velatura increspata, in marquisette di cotone, si arricchisce di una mantovana di cotone o di tela elegantemente sagomata e sottolineata da un motivo di passamaneria. Per dare all'ambiente un tono più elegante la mantovana potrà essere di raso o di altro tessuto di seta.

tenda doppia
La tenda doppia starà molto bene in un soggiorno nel quale si aprono due finestre disposte simmetricamente (vedi figura).
Può avere l'interno trasparente e l'esterno opaco, o essere tutto trasparente. La tenda interna, molto ricca, cade a piombo, quella esterna viene raccolta sul lato sinistro (nell'altra finestra sarà raccolta ovviamente sul lato destro).

Nei negozi specializzati troverete tutto ciò che vi occorre per creare da voi le vostre tende. Chiedete consiglio agli addetti del negozio che sapranno indirizzarvi nel migliore dei modi sia nella scelta del modello che in quella del tendaggio.



Per una camera da letto,uno studio, un'anticamera potete scegliere tanto un tendaggio importante, con velatura interna trasparente e tenda esterna opaca, quanto un tendaggio di genere più fresco e pratico, in cotone, canapa, cinz, rete di lana o di lino.

tenda romantica
tenda importante














La tenda romanticaè il massimo per una camera da letto di ispirazione "romantica". In tessuto trasparente, guarnito tutto attorno da un fitto volant, è drappeggiato, incrociato e raccolto sui due lati da due braccioli. La mantovana è decorata con un motivo appena accennato di smerli e può essere realizzata nello stesso tessuto della tenda oppure nel tessuto usato per il copriletto.
La tenda importante serve a completare degnamente una camera da letto piuttosto importante, ripresa a smerli riccamente drappeggiati. E' di un tessuto trasparente e termina  in basso con una doppia bordura in passamaneria. La si può guarnire con una mantovana diritta e decorata e due laterali realizzati in un tessuto pesante o nella stessa stoffa della tenda. 

tenda giovane

La tenda giovaneè un originale modello di tenda ed è adatto sopratutto per una camera da letto giovane e fresca. E' corta, trasparente, piuttosto ricca. Invece di completarla con la solita mantovana diritta o increspata, la si può montare con facilità infilandola per mezzo di anelli in una grossa bacchetta di ottone.

Dato il suo carattere disinvolto, è consigliabile per la camera da letto di una ragazza.





Vediamo ora le tende per la cucina: in una cucina, in un tinello, in una stanza da bagno potete appendere senz'altro delle tendine a "vetro" di tessuto leggero  e trasparente oppure delle tende corte in un allegro cretonne.

tenda rustica
tenda pratica














La tenda rustica è indicata per il tinello, una tenda corta e svelta, poco imgombrante. Il modello presentato nella foto, è composto di una piccola mantovana e di due laterali increspati di cretonne a fiori; la velatura interna, fissata in alto e in basso, è di marquisette o terital; tutto l'insieme armonizza perfettamente col tono "rustico" della stanza.
La tenda praticaè un classico esempio di tendine a vetro. Si  possono  fissare soltanto in alto, oppure sia in alto che in basso. Si montano facilmente anche senza l'aiuto del tappezziere; basta fare due orli agli estremi della tenda e infilarvi le apposite bacchette, fissate poi ai chiodi predisposti sul telaio della finestra. Volendo si possono stringere, al centro, con un fiocco dello stesso tessuto.

tenda all'americana
Per quanto riguarda la tenda all'americana si tratta di una tenda trasparente, sormontata da un doppio volant e terminante in basso con un terzo volant. I tre volants si possono confezionare nello stesso tessuto della tenda o in un altro tessuto (cinz, cretonne). Una variante , anch'essa americana, è data dalle doppie tendine corte con volants che sembrano dividere in quattro la finestra.

Per concludere la nostra rassegna sulle tende un piccolo consiglio. Ricordate che anche nel tendaggio il colore può essere impiegato per creare effetti molto piacevoli di contrasto o di armonia con il resto dell'arredamento e serve spesso a riempire e a dare tono a una parete bianca e disadorna.



Per quanto riguarda la mantovana per l'anticamera e lo studio tenete presente che sulla base della tenda classica (illustrata in alto), si possono realizzare un'infinità di modelli, che si adattano, oltre che a un soggiorno, anche a  uno studio o a un'anticamera. Basta variare il disegno della mantovana e il tipo di tessuto.

Il disegno a fianco riporta 5 modelli di mantovane guarnite di passamaneria. Sono solo un piccolo esempio che potrete far copiare dal vostro tappezziere.

Ricordo ancora che, nei negozi specializzati troverete tutto ciò che vi occorre per creare da voi le vostre tende. Chiedete consiglio agli addetti del negozio che sapranno indirizzarvi nel migliore dei modi sia nella scelta del modello che in quella del tendaggio.

Questo post vuole essere solo una guida semplice, nulla di pretenzioso. Vi assicuro che entrando in un negozio di tendaggi sarete soppraffatti da migliaia di modelli, stoffe e passamanerie e a voi non resterà che l'imbarazzo della scelta.

Buon lavoro.



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Arredamento

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Arredare una casa non è cosa di poco conto ma, non è nemmeno l'impresa più ardua che possa esistere. Come in tutte le cose occorre tanta pazienza e una buona dose di amore.

Visualizzate gli spazi, i punti luce, gli angoli...insomma la vostra casa nell'insieme, prendete un blocco notes e mettetevi al lavoro.

In questa sezione del blog cercheremo di guidarvi con piccoli consigli, niente di pretenzioso solo un aiuto, nella scelta di particolari che cambieranno l'aspetto della vostra dimora.

Parliamo di: 
  1. Come scegliere le tende

 

Torta di pane

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E' avanzato del pane, o meglio sono panini? Niente paura potete utilizzarli per realizzare questa torta di pane. Vediamo quali sono gli ingredienti necessari e come fare.

Ingredienti:

  • 4 panini raffermi
  • 2 bicchieri di latte
  • 30 g di farina
  • 50 g di zucchero
  • 1 uovo
  • 1 limone
  • 100 g di mandorle
  • 50 g di uvetta
  • 2 mele
  • 15 g di burro
  • 10 g di pangrattato
Come si prepara: 
  1. In una terrina spappolare nel latte il pane spezzettato aggiungendo la farina. Mescolare, aggiungere lo zucchero, mescolare ancora, unire l'uovo, la scorza del limone grattugiata, le mandorle in precedenza sbollentate, sbucciate e tagliate a listelli, l'uvetta già fatta rinvenire in acqua tiepida e le mele sbucciate e affettate. 
  2. Mescolare ancora bene, versare in una tortiera passata con il burro e il pangrattato e cuocere in forno a 230°C, sino a quando sulla superficie della torta non si sarà formata una crosticina dorata. 
  3. Sfornare e lasciare raffreddare quindi sformare il dolce. 


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Dagli appennini alle Ande

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Molti anni fa un ragazzo genovese di tredici anni, figliuolo d'un operaio, andò da Genova in America, da solo, per cercare sua madre. Sua madre era andata due anni prima a Buenos Aires, città capitale della Repubblica Argentina, per mettersi al servizio di qualche casa ricca, e guadagnar così in poco tempo tanto da rialzare la famiglia, la quale, per effetto di varie disgrazie, era caduta nella povertà e nei debiti. Non sono poche le donne coraggiose che fanno un così lungo viaggio per quello scopo, e che grazie alle grandi paghe che trova laggiù la gente di servizio, ritornano in patria a capo di pochi anni con qualche migliaio di lire.
La povera madre aveva pianto lacrime di sangue al separarsi dai suoi figliuoli, l'uno di diciott'anni e l'altro di undici; ma era partita con coraggio, e piena di speranza. Il viaggio era stato felice: arrivata appena a Buenos Aires, aveva trovato subito, per mezzo d'un bottegaio genovese, cugino di suo marito, stabilito là da molto tempo, una buona famiglia argentina, che la pagava molto e la trattava bene. E per un po' di tempo aveva mantenuto coi suoi una corrispondenza regolare. Com'era stato convenuto fra loro, il marito dirigeva le lettere al cugino, che le recapitava alla donna, e questa rimetteva le risposte a lui, che le spediva a Genova, aggiungendovi qualche riga di suo.

Guadagnando ottanta lire al mese e non spendendo nulla per sé, mandava a casa ogni tre mesi una bella somma, con la quale il marito, che era galantuomo, andava pagando via via i debiti più urgenti, e riguadagnando così la sua buona reputazione. E intanto lavorava ed era contento dei fatti suoi, anche per la speranza che la moglie sarebbe ritornata fra non molto tempo, perché la casa pareva vuota senza di lei, e il figliuolo minore in special modo, che amava moltissimo sua madre, si rattristava, non si poteva rassegnare alla sua lontananza.

Ma trascorso un anno dalla partenza, dopo una lettera breve nella quale essa diceva di star poco bene di salute, non ne ricevettero più. Scrissero due volte al cugino; il cugino non rispose. Scrissero alla famiglia argentina, dove la donna era a servire; ma non essendo forse arrivata la lettera perché avean storpiato il nome sull'indirizzo, non ebbero risposta. Temendo d'una disgrazia, scrissero al Consolato italiano di Buenos Aires, che facesse fare delle ricerche; e dopo tre mesi fu risposto loro dal Console che, nonostante l'avviso fatto pubblicare dai giornali, nessuno s'era presentato, neppure a dare notizie. E non poteva accadere altrimenti, oltre che per altre ragioni, anche per questa: Che con l'idea di salvare il decoro dei suoi, ché le pareva di macchiarlo a far la serva, la buona donna non aveva dato alla famiglia argentina il suo vero nome.

Altri mesi passarono, nessuna notizia. Padre e figliuolo erano costernati; il più piccolo, oppresso da una tristezza che non poteva vincere. Che fare? A chi ricorrere? La prima idea del padre era stata di partire, d'andare a cercare sua moglie in America. Ma e il lavoro? Chi avrebbe mantenuto i suoi figliuoli? E neppure avrebbe potuto partire il figliuol maggiore, che cominciava appunto allora a guadagnar qualche cosa, ed era necessario alla famiglia. E in questo affanno vivevano, ripetendo ogni giorno gli stessi discorsi dolorosi, o guardandosi l'un l'altro, in silenzio. Quando una sera Marco, il più piccolo, uscì a dire risolutamente: - Ci vado io in America a cercar mia madre. - Il padre crollò il capo, con tristezza, e non rispose. Era un pensiero affettuoso, ma una cosa impossibile. A tredici anni, solo, fare un viaggio in America, che ci voleva un mese per andarci! Ma il ragazzi insistette, pazientemente. Insistette quel giorno, il giorno dopo, tutti i giorni con una grande pacatezza, ragionando col buon senso d'un uomo. - Altri ci sono andati, - diceva - e più piccoli di me. Una volta che son sul bastimento, arrivo là come un altro. Arrivato là, non ho che a cercare la bottega del cugino. Ci sono tanti italiani, qualcheduno m'insegnerà la strada. Trovato il cugino, e trovata mia madre, se non trovo lui vado dal Console, cercherò la famiglia argentina. Qualunque cosa accada, laggiù c'è del lavoro per tutti; troverò del lavoro anch'io, almeno per guadagnar tanto da ritornare a casa. - E così, a poco a poco, riuscì quasi a persuadere suo padre.

Suo padre lo stimava, sapeva che aveva giudizio e coraggio, che era assuefatto alle privazioni e ai sacrifici, e che tutte queste buone qualità avrebbero preso doppia forza nel suo cuore per quel santo scopo di trovar sua madre, ch'egli adorava. Si aggiunse pure che un Comandante di piroscafo, amico d'un suo conoscente, avendo inteso parlar della cosa, s'impegnò di fargli aver gratis un biglietto di terza classe per l'Argentina. E allora, dopo un altro po' di esitazione, il padre acconsentì, il viaggio fu deciso. Gli empirono una sacca di panni, gli misero in tasca qualche scudo, gli diedero l'indirizzo del cugino, e una bella sera del mese di aprile lo imbarcarono. - Figliuolo, Marco mio, - gli disse il padre dandogli l'ultimo bacio, con le lacrime agli occhi, sopra la scala del piroscafo che stava per partire: - fatti coraggio. Parti per un santo fine e Dio t'aiuterà.

Povero Marco! Egli aveva il cuor forte e preparato alle più dure prove per quel viaggio; ma quando vide sparire all'orizzonte la sua bella Genova, e si trovò in alto mare, su quel grande piroscafo affollato di contadini emigranti, solo, non conosciuto da alcuno, con quella piccola sacca che racchiudeva tutta la sua fortuna, un improvviso scoraggiamento lo assalì. Per due giorni stette accucciato come un cane a prua, non mangiando quasi, oppresso da un gran bisogno di piangere. Ogni sorta di tristi pensieri gli passava per la mente, e il più triste, il più terribile era il più ostinato a tornare: il pensiero che sua madre fosse morta. Nei suoi sogni rotti e pensosi egli vedeva sempre la faccia d'uno sconosciuto che lo guardava in aria di compassione e poi gli diceva all'orecchio: - Tua madre è morta. - E allora si svegliava soffocando un grido. Nondimeno, passato lo stretto di Gibilterra, alla prima vista dell'Oceano Atlantico, riprese un poco d'animo e di speranza.

Ma fu un breve sollievo. Quell'immenso mare sempre eguale, il calore crescente, la tristezza di tutta quella povera gente che lo circondava, il sentimento della propria solitudine tornarono a buttarlo giù. I giorni, che si succedevano vuoti e monotoni, gli si confondevano nella memoria, come accade ai malati. Gli parve d'esser in mare da un anno. E ogni mattina, svegliandosi, provava un nuovo stupore di esser là solo, in mezzo a quell'immensità d'acqua, in viaggio per l'America. I bei pesci volanti che venivano ogni tanto a cascare sul bastimento, quei meravigliosi tramonti dei tropici, con quelle enormi nuvole color di bragia e di sangue, e quelle fosforescenze notturne che fanno parer l'Oceano tutto acceso come un mare di lava, non gli facevan l'effetto di cose reali, ma di prodigi veduti in sogno.

Ebbe delle giornate di cattivo tempo, durante le quali restò chiuso continuamente nel dormitorio, dove tutto ballava e rovinava, in mezzo a un coro spaventevole di lamenti e d'imprecazioni; e credette che fosse giunta la sua ultima ora. Ebbe altre giornate di mare quieto e giallastro, di caldura insopportabile, di noia infinita; ore interminabili e sinistre, durante le quali i passeggeri spossati, distesi immobili sulle tavole, parevan tutti morti. E il viaggio non finiva mai: mare e cielo, cielo e mare, oggi come ieri, domani come oggi, - ancora, - sempre, eternamente. Ed egli per lunghe ore stava appoggiato al parapetto a guardar quel mare senza fine, sbalordito, pensando vagamente a sua madre, fin che gli occhi gli si chiudevano e il capo gli cascava dal sonno; e allora rivedeva quella faccia sconosciuta che lo guardava in aria di pietà, e gli ripeteva all'orecchio: - Tua madre è morta! - e a quella voce si risvegliava in sussulto, per ricominciare a sognare a occhi aperti e a guardar l'orizzonte immutato.




Ventisette giorni durò il viaggio! Ma gli ultimi furono i migliori. Il tempo era bello e l'aria fresca. Egli aveva fatto conoscenza con un buon vecchio lombardo, che andava in America a trovare il figliuolo, coltivatore di terra vicino alla città di Rosario; gli aveva detto tutto di casa sua, e il vecchio gli ripeteva ogni tanto, battendogli una mano sulla nuca: - Coraggio, bagai, tu troverai tua madre sana e contenta. - Quella compagnia lo riconfortava, i suoi presentimenti s'erano fatti di tristi lieti. Seduto a prua, accanto al vecchio contadino che fumava la pipa, sotto un bel cielo stellato, in mezzo a gruppi d'emigranti che cantavano, egli si rappresentava cento volte al pensiero il suo arrivo a Buenos Aires, si vedeva in quella certa strada, trovava la bottega, si lanciava incontro al cugino: - Come sta mia madre? Dov'è? Andiamo subito! - Andiamo subito; - correvano insieme, salivano una scala, s'apriva una porta... E qui il suo soliloquio muto s'arrestava, la sua immaginazione si perdeva in un sentimento d'inesprimibile tenerezza, che gli faceva tirar fuori di nascosto una piccola medaglia che portava al collo, e mormorare, baciandola, le sue orazioni.

Il ventisettesimo giorno dopo quello della partenza, arrivarono. Era una bella aurora rossa di maggio quando il piroscafo gittava l'àncora nell'immenso fiume della Plata, sopra una riva del quale si stende la vasta città di Buenos Aires, capitale della Repubblica Argentina. Quel tempo splendido gli parve di buon augurio. Era fuor di sé dalla gioia e dall'impazienza. Sua madre era a poche miglia di distanza da lui! Tra poche ore l'avrebbe veduta! Ed egli si trovava in America, nel nuovo mondo, e aveva avuto l'ardimento di venirci so]o! Tutto quel lunghissimo viaggio gli pareva allora che fosse passato in un nulla. Gli pareva d'aver volato, sognando, e di essersi svegliato in quel punto. Ed era così felice, che quasi non si stupì né si afflisse, quando si frugò nelle tasche, e non ci trovò più uno dei due gruzzoli in cui aveva diviso il suo piccolo tesoro, per esser più sicuro di non perdere tutto. Gliel'avevan rubato, non gli restavan più che poche lire; ma che gli importava, ora ch'era vicino a sua madre.

Con la sua sacca alla mano scese insieme a molti altri italiani in un vaporino che li portò fino a poca distanza dalla riva, calò dal vaporino in una barca che portava il nome di Andrea Doria, fu sbarcato al molo, salutò il suo vecchio amico lombardo, e s'avviò a lunghi passi verso la città. Arrivato all'imboccatura della prima via fermò un uomo che passava e lo pregò di indicargli da che parte dovesse prendere per andar in via de los Artes. Aveva fermato per l'appunto un operaio italiano. Questi lo guardò con curiosità e gli domandò se sapeva leggere. Il ragazzo accennò di sì. - Ebbene, - gli disse l'operaio, indicandogli la via da cui egli usciva; - va su sempre diritto, leggendo i nomi delle vie a tutte le cantonate; finirai con trovare la tua. - Il ragazzo lo ringraziò e infilò la via che gli s'apriva davanti.

Era una via diritta e sterminata, ma stretta; fiancheggiata da case basse e bianche, che pareva tanti villini; piena di gente, di carrozze, di grandi carri, che facevano uno strepito assordante; e qua e là spenzolavano enormi bandiere di vari colori, con su scritto a grossi caratteri l'annunzio di partenze di piroscafi per città sconosciute. A ogni tratto di cammino, voltandosi a destra e a sinistra, egli vedeva due altre vie che fuggivano diritte a perdita d'occhio, fiancheggiate pure da case basse e bianche, e piene di gente e di carri, e tagliate in fondo dalla linea diritta della sconfinata pianura americana, simile all'orizzonte del mare. La città gli pareva infinita; gli pareva che si potesse camminar per giornate e per settimane vedendo sempre di qua e di là altre vie come quelle, e che tutta l'America ne dovesse esser coperta. Guardava attentamente i nomi delle vie: dei nomi strani che stentava a leggere.

A ogni nuova via, si sentiva battere il cuore, pensando che fosse la sua. Guardava tutte le donne con l'idea di incontrare sua madre. Ne vide una davanti a sé, che gli diede una scossa al sangue: la raggiunse, la guardò: era una negra. E andava, andava, affrettando il passo. Arrivò a un crocicchio, lesse, e restò come inchiodato sul marciapiede Era la vita delle Arti. Svoltò, vide il numero 117 dovette fermarsi per riprender respiro. E disse tra sé: - O madre mia! madre mia! È proprio vero che ti vedrò a momenti! - Corse innanzi, arrivò a una piccola bottega di merciaio. Era quella. S'affacciò. Vide una donna coi capelli grigi e gli occhiali.
- Che volete, ragazzo? - gli domandò quella, in spagnuolo.
- Non è questa, - disse, stentando a metter fuori la voce, - la bottega di Francesco Merelli?
- Francesco Merelli è morto, - rispose la donna in italiano.
Il ragazzo ebbe l'impressione d'una percossa nel petto.
- Quando morto?
- Eh, da un pezzo, - rispose la donna; - da mesi. Fece cattivi affari, scappò. Dicono che sia andato a Bahia Blanca, molto lontano di qui. E morì appena arrivato. La bottega è mia.
Il ragazzo impallidì.
Poi disse rapidamente: - Merelli conosceva mia madre, mia madre era qua a servire dal signor Mequinez. Egli solo poteva dirmi dov'era. Io sono venuto in America a cercar mia madre. Merelli le mandava le lettere. Io ho bisogno di trovar mia madre.
- Povero figliuolo, - rispose la donna, - io non so. Posso domandare al ragazzo del cortile. Egli conosceva il giovane che faceva commissioni per Merelli. Può darsi che sappia dir qualche cosa.
Andò in fondo alla bottega e chiamò il ragazzo, che venne subito. - Dimmi un poco, - gli domandò la bottegaia; - ti ricordi che il giovane di Merelli andasse qualche volta a portar delle lettere a una donna di servizio, in casa di figli del paese?
- Dal signor Mequinez, - rispose il ragazzo, sì signora, qualche volta. In fondo a via delle Arti.
- Ah, signora, grazie! - gridò Marco. - Mi dica il numero... non lo sa? Mi faccia accompagnare, - accompagnami tu subito, ragazzo; - io ho ancora dei soldi.
E disse questo con tanto calore, che senz'aspettar la preghiera della donna, il ragazzo rispose: - andiamo; - e uscì pel primo a passi lesti.
Quasi correndo, senza dire una parola, andarono fino in fondo alla via lunghissima, infilarono l'andito d'entrata d'una piccola casa bianca, e si fermarono davanti a un bel cancello di ferro, da cui si vedeva un cortiletto, pieno di vasi di fiori. Marco diede una strappata al campanello.
Comparve una signorina.
- Qui sta la famiglia Mequinez, non è vero? - domandò ansiosamente il ragazzo.
- Ci stava, - rispose la signorina, pronunziando l'italiano alla spagnuola. - Ora ci stiamo noi, Zeballos.
- E dove sono andati i Mequinez? - domandò Marco, col batticuore.
- Sono andati a Cordova.
- Cordova! - esclamò Marco. - Dov'è Cordova? E la persona di servizio che avevano? la donna, mia madre! La donna di servizio era mia madre! Hanno condotto via anche mia madre?
La signorina lo guardò e disse: - Non so. Lo saprà forse mio padre, che li ha conosciuti quando partirono. Aspettate un momento.
Scappò e tornò poco dopo con suo padre, un signore alto, con la barba grigia. Questi guardò fisso un momento quel tipo simpatico di piccolo marinaio genovese, coi capelli biondi e il naso aquilino, e gli domandò in cattivo italiano: - Tua madre è genovese?
Marco rispose di sì.
- Ebbene la donna di servizio genovese è andata con loro, lo so di certo.
- Dove sono andati?
- A Cordova, una città.
Il ragazzo mise un sospiro; poi disse con rassegnazione: - Allora... andrò a Cordova.
- Ah pobre Niño! - esclamò il signore, guardandolo in aria di pietà. - Povero ragazzo! È a centinaia di miglia di qua, Cordova.
Marco diventò pallido come un morto, e s'appoggiò con una mano alla cancellata.
- Vediamo, vediamo, - disse allora il signore, mosso a compassione, aprendo la porta, - vieni dentro un momento, vediamo un po' se si può far qualche cosa. - Sedette, gli diè da sedere, gli fece raccontar la sua storia, lo stette a sentire molto attento, rimase un pezzo pensieroso; poi gli disse risolutamente: - Tu non hai denari, non è vero?
- Ho ancora... poco, - rispose Marco.
Il signore pensò altri cinque minuti, poi si mise a un tavolino, scrisse una lettera, la chiuse, e porgendola al ragazzo, gli disse: - Senti, italianito. Va' con questa lettera alla Boca. È una piccola città mezza genovese, a due ore di strada di qua. Tutti ti sapranno indicare il cammino. Va' là e cerca di questo signore, a cui è diretta la lettera, e che è conosciuto da tutti. Portagli questa lettera. Egli ti farà partire domani per la città di Rosario, e ti raccomanderà a qualcuno lassù, che penserà a farti proseguire il viaggio fino a Cordova, dove troverai la famiglia Mequinez e tua madre. Intanto, piglia questo. - E gli mise in mano qualche lira. - Va', e fatti coraggio; qui hai da per tutto dei compaesani, non rimarrai abbandonato. Adios.

Il ragazzo gli disse: - Grazie, - senza trovar altre parole, uscì con la sua sacca, e congedatosi dalla sua piccola guida, si mise lentamente in cammino verso la Boca, pieno di tristezza e di stupore, a traverso alla grande città rumorosa. Tutto quello che gli accadde da quel momento fino alla sera del giorno appresso gli rimase poi nella memoria confuso ed incerto come una fantasticheria di febbricitante, tanto egli era stanco, sconturbato, avvilito. E il giorno appresso, all'imbrunire, dopo aver dormito la notte in una stanzuccia d'una casa della Boca, accanto a un facchino del porto, - dopo aver passata quasi tutta la giornata, seduto sopra un mucchio di travi, e come trasognato, in faccia a migliaia di bastimenti, di barconi e di vaporini, - si trovava a poppa d'una grossa barca a vela, carica di frutte, che partiva per la città di Rosario, condotta da tre robusti genovesi abbronzati dal sole; la voce dei quali, e il dialetto amato che parlavano gli rimise un po' di conforto nel cuore.

Partirono, e il viaggio durò tre giorni e quattro notti, e fu uno stupore continuo per il piccolo viaggiatore. Tre giorni e quattro notti su per quel meraviglioso fiume Paranà, rispetto al quale il nostro grande Po non è che un rigagnolo, e la lunghezza dell'Italia, quadruplicata, non raggiunge quella del suo corso. Il barcone andava lentamente a ritroso di quella massa d'acqua smisurata. Passava in mezzo a lunghe isole, già nidi di serpenti e di tigri, coperte d'aranci e di salici, simili a boschi galleggianti; e ora infilava stretti canali, da cui pareva che non potesse più uscire; ora sboccava in vaste distese d'acque, dell'aspetto di grandi laghi tranquilli; poi daccapo fra le isole, per i canali intricati d'un arcipelago, in mezzo a mucchi enormi di vegetazione. Regnava un silenzio profondo. Per lunghi tratti, le rive e le acque solitarie e vastissime davan l'immagine d'un fiume sconosciuto, in cui quella povera vela fosse la prima al mondo ad avventurarsi. Quanto più s'avanzavano, e tanto più quel mostruoso fiume lo sgomentava. Egli immaginava che sua madre si trovasse alle sorgenti, e che la navigazione dovesse durare degli anni. Due volte al giorno mangiava un po' di pane e di carne salata coi barcaioli, i quali, vedendolo triste, non gli rivolgevan mai la parola. La notte dormiva sopra coperta, e si svegliava ogni tanto, bruscamente, stupito della luce limpidissima della luna che imbiancava le acque immense e le rive lontane; e allora il cuore gli si serrava. - Cordova! - Egli ripeteva quel nome: - Cordova! - come il nome d'una di quelle città misteriose, delle quali aveva inteso parlare nelle favole. Ma poi pensava: - Mia madre è passata di qui, ha visto queste isole, quelle rive, - e allora non gli parevan più tanto strani e solitari quei luoghi in cui lo sguardo di sua madre s'era posato...

La notte, uno dei barcaiuoli cantava. Quella voce gli rammentava le canzoni di sua madre, quando l'addormentava bambino. L'ultima notte, all'udir quel canto, singhiozzò. Il barcaiuolo s'interruppe. Poi gli gridò: - Animo, animo, figioeu! Che diavolo! Un genovese che piange perché è lontano da casa! I genovesi girano il mondo gloriosi e trionfanti! - E a quelle parole egli si riscosse, sentì la voce del sangue genovese, e rialzò la fronte con alterezza, battendo il pugno sul timone. - Ebbene, si - disse tra sé, - dovessi anch'io girare tutto il mondo, viaggiare ancora per anni e anni, e fare delle centinaia di miglia a piedi, io andrò avanti, fin che troverò mia madre. Dovessi arrivare moribondo, e cascar morto ai suoi piedi! Pur che io la riveda una volta! Coraggio! - E con quest'animo arrivò allo spuntar d'un mattino rosato e freddo di fronte alla città di Rosario, posta sulla riva alta del Paranà, dove si specchiavan nelle acque le antenne imbandierate di cento bastimenti d'ogni paese.

Poco dopo sbarcato, salì alla città, con la sua sacca alla mano, a cercare un signore argentino per cui il suo protettore della Boca gli aveva rimesso un biglietto di visita con qualche parola di raccomandazione. Entrando in Rosario gli parve d'entrare in una città già conosciuta. Erano quelle vie interminabili, diritte, fiancheggiate di case basse e bianche, attraversate in tutte le direzioni, al disopra dei tetti, da grandi fasci di fili telegrafici e telefonici, che parevano enormi ragnateli; e un gran trepestio di gente, di cavalli, di carri. La testa gli si confondeva: credette quasi di rientrare a Buenos Aires, e di dover cercare un'altra volta il cugino. Andò attorno per quasi un'ora, svoltando e risvoltando, e sembrandogli sempre di tornar nella medesima via; e a furia di domandare, trovò la casa del suo nuovo protettore. Tirò il campanello. S'affacciò alla porta un grosso uomo biondo, arcigno, che aveva l'aria d'un fattore, e che gli domandò sgarbatamente, con pronunzia straniera:
- Che vuoi?
Il ragazzo disse il nome del padrone.
- Il padrone, - rispose il fattore, - è partito ieri sera per Buenos Aires con tutta la sua famiglia.
Il ragazzo restò senza parola.
Poi balbettò: - Ma io... non ho nessuno qui! Sono solo! - E porse il biglietto.
Il fattore lo prese, lo lesse e disse burberamente: - Non so che farci. Glielo darò fra un mese, quando ritornerà.
- Ma io, io son solo! io ho bisogno! - esclamò il ragazzo, con voce di preghiera.
- Eh! andiamo, - disse l'altro; - non ce n'è ancora abbastanza della gramigna del tuo paese a Rosario! Vattene un po' a mendicare in Italia. - E gli chiuse il cancello sulla faccia.
Il ragazzo restò là come impietrato.
Poi riprese lentamente la sua sacca, ed uscì, col cuore angosciato, con la mente in tumulto, assalito a un tratto da mille pensieri affannosi. Che fare? dove andare? Da Rosario a Cordova c'era una giornata di strada ferrata. Egli non aveva più che poche lire. Levato quello che gli occorreva di spendere quel giorno, non gli sarebbe rimasto quasi nulla. Dove trovare i denari per pagarsi il viaggio? Poteva lavorare. Ma come, a chi domandar lavoro? Chieder l'elemosina! Ah! no, essere respinto, insultato, umiliato come poc'anzi, no, mai, mai più, piuttosto morire! - E a quell'idea, e al riveder davanti a sé la lunghissima via che si perdeva lontano nella pianura sconfinata, si sentì fuggire un'altra volta il coraggio, gettò la sacca sul marciapiede, vi sedette su con le spalle al muro, e chinò il viso tra le mani, senza pianto, in un atteggiamento desolato.
La gente l'urtava coi piedi passando; i carri empivan la via di rumore; alcuni ragazzi si fermarono a guardarlo. Egli rimase un pezzo così.
Quando fu scosso da una voce che gli disse tra in italiano e in lombardo: - Che cos'hai, ragazzetto?
Alzò il viso a quelle parole, e subito balzò in piedi gettando un'esclamazione di meraviglia: - Voi qui!
Era il vecchio contadino lombardo, col quale aveva fatto amicizia nel viaggio.
La meraviglia del contadino non fu minore della sua. Ma il ragazzo non gli lasciò il tempo d'interrogarlo, e gli raccontò rapidamente i casi suoi. - Ora son senza soldi, ecco; bisogna che lavori; trovatemi voi del lavoro da poter mettere insieme qualche lira; io faccio qualunque cosa; porto roba, spazzo le strade, posso far commissioni, anche lavorare in campagna; mi contento di campare di pan nero; ma che possa partir presto, che possa trovare una volta mia madre, fatemi questa carità, del lavoro, trovatemi voi del lavoro, per amor di Dio, che non ne posso più!
- Diamine, diamine, - disse il contadino, guardandosi attorno e grattandosi il mento. - Che storia è questa!... Lavorare... è presto detto. Vediamo un po'. Che non ci sia mezzo di trovar trenta lire fra tanti patriotti?
Il ragazzo lo guardava, confortato da un raggio di speranza.
- Vieni con me, - gli disse il contadino.
- Dove? - domandò il ragazzo, ripigliando la sacca.
- Vieni con me.
Il contadino si mosse, Marco lo seguì, fecero un lungo tratto di strada insieme, senza parlare. Il contadino si fermò alla porta d'un'osteria che aveva per insegna una stella e scritto sotto: - La estrella de Italia; - mise il viso dentro e voltandosi verso il ragazzo disse allegramente: - Arriviamo in buon punto. - Entrarono in uno stanzone, dov'eran varie tavole, e molti uomini seduti, che bevevano, parlando forte. Il vecchio lombardo s'avvicinò alla prima tavola, e dal modo come salutò i sei avventori che ci stavano intorno, si capiva ch'era stato in loro compagnia fino a poco innanzi. Erano rossi in viso e facevan sonare bicchieri, vociando e ridendo.
- Camerati, - disse senz'altro il lombardo, restando in piedi, e presentando Marco; - c'è qui un povero ragazzo nostro patriotta, che è venuto solo da Genova a Buenos Aires a cercare sua madre. A Buenos Aires gli dissero: - Qui non c'è, è a Cordova. - Viene in barca a Rosario, tre dì e tre notti, con due righe di raccomandazione; presenta la carta: gli fanno una figuraccia. Non ha la croce d'un centesimo. È qui solo come un disperato. È un bagai pieno di cuore. Vediamo un poco. Non ha da trovar tanto da pagare il biglietto per andare a Cordova a trovar sua madre? L'abbiamo da lasciar qui come un cane?
- Mai al mondo, perdio! - Mai non sarà detto questo! - gridarono tutti insieme, battendo il pugno sul tavolo. - Un patriotta nostro! - Vieni qua, piccolino. - Ci siamo noi, gli emigranti! - Guarda che bel monello. - Fuori dei quattrini, camerati. - Bravo! Venuto solo! Hai del fegato! - Bevi un sorso, patriotta. - Ti manderemo da tua madre, non pensare. - E uno gli dava un pizzicotto alla guancia, un altro gli batteva la mano sulla spalla, un terzo lo liberava dalla sacca; altri emigranti s'alzarono dalle tavole vicine e s'avvicinarono; la storia del ragazzo fece il giro dell'osteria; accorsero dalla stanza accanto tre avventori argentini; e in meno di dieci minuti il contadino lombardo che porgeva il cappello, ci ebbe dentro quarantadue lire. - Hai Visto, - disse allora, voltandosi verso il ragazzo, - come si fa presto in America? - Bevi - gli gridò un altro, porgendogli un bicchiere di vino: - Alla salute di tua madre! - Tutti alzarono i bicchieri. - E Marco ripeté: - Alla salute di mia... - Ma un singhiozzo di gioia gli chiuse la gola, e rimesso il bicchiere sulla tavola, si gettò al collo del suo vecchio.

La mattina seguente, allo spuntare del giorno, egli era già partito per Cordova, ardito e ridente, pieno di presentimenti felici. Ma non c'è allegrezza che regga a lungo davanti a certi aspetti sinistri della natura. Il tempo era chiuso e grigio; il treno, presso che vuoto, correva a traverso a un'immensa pianura priva d'ogni segno d'abitazione. Egli si trovava solo in un vagone lunghissimo, che somigliava a quelli dei treni per i feriti. Guardava a destra, guardava a sinistra, e non vedeva che una solitudine senza fine, sparsa di piccoli alberi deformi, dai tronchi e dai rami scontorti, in atteggiamenti non mai veduti, quasi d'ira e d'angoscia; una vegetazione scura, rada e triste, che dava alla pianura l'apparenza d'uno sterminato cimitero. Sonnecchiava mezz'ora, tornava a guardare: era sempre lo stesso spettacolo. Le stazioni della strada ferrata eran solitarie, come case di eremiti; e quando il treno si fermava, non si sentiva una voce; gli pareva di trovarsi solo in un treno, perduto, abbandonato in mezzo a un deserto. Gli sembrava che ogni stazione dovesse essere l'ultima, e che s'entrasse dopo quella nelle terre misteriose e spaurevoli dei selvaggi. Una brezza gelata gli mordeva il viso.

Imbarcandolo a Genova sul finir d'aprile, i suoi non avevan pensato che in America egli avrebbe trovato l'inverno, e l'avevan vestito da estate. Dopo alcune ore, incominciò a soffrire il freddo, e col freddo, la stanchezza dei giorni passati, pieni di commozioni violente, e delle notti insonni e travagliate. Si addormentò, dormì lungo tempo, si svegliò intirizzito; si sentiva male. E allora gli prese un vago terrore di cader malato e di morir per viaggio, e d'esser buttato là in mezzo a quella pianura desolata, dove il suo cadavere sarebbe stato dilaniato dai cani e dagli uccelli di rapina, come certi corpi di cavalli e di vacche che vedeva tratto tratto accanto alla strada, e da cui torceva lo sguardo con ribrezzo. In quel malessere inquieto, in mezzo a quel silenzio tetro della natura, la sua immaginazione s'eccitava e volgeva al nero. Era poi ben sicuro di trovarla, a Cordova, sua madre? E se non ci fosse stata? Se quel signore di via delle Arti avesse sbagliato? E se fosse morta? In questi pensieri si riaddormentò, sognò d'essere a Cordova di notte, e di sentirsi gridare da tutte le porte e da tutte le finestre: - Non c'è! Non c'è! Non c'è! - si risvegliò di sobbalzo, atterrito, e vide in fondo al vagone tre uomini barbuti, ravvolti in scialli di vari colori, che lo guardavano, parlando basso tra di loro; e gli balenò il sospetto che fossero assassini e lo volessero uccidere, per rubargli la sacca. Al freddo, al malessere gli s'aggiunse la paura; la fantasia già turbata gli si stravolse; - i tre uomini lo fissavano sempre, - uno di essi mosse verso di lui; - allora egli smarrì la ragione, e correndogli incontro con le braccia aperte, gridò: - Non ho nulla. Sono un povero ragazzo. Vengo dall'Italia vo a cercar mia madre, son solo; non mi fate del male! - Quelli capirono subito, n'ebbero pietà, lo carezzarono e lo racquetarono, dicendogli molte parole che non intendeva; e vedendo che batteva i denti dal freddo, gli misero addosso uno dei loro scialli, e lo fecero risedere perché dormisse. E si riaddormentò, che imbruniva. Quando lo svegliarono, era a Cordova.

Ah! che buon respiro tirò, e con che impeto si cacciò fuori del vagone! Domandò a un impiegato della stazione dove stesse di casa l'ingegner Mequinez: quegli disse il nome d'una chiesa: - la casa era accanto alla chiesa; - il ragazzo scappò via. Era notte. Entrò in città. E gli parve d'entrare in Rosario un'altra volta, al veder quelle strade diritte, fiancheggiate di piccole case bianche, e tagliate da altre strade diritte e lunghissime. Ma c'era poca gente, e al chiarore dei rari lampioni incontrava delle facce strane, d'un colore sconosciuto, tra nerastro e verdognolo, e alzando il viso a quando a quando, vedeva delle chiese d'architettura bizzarra che si disegnavano enormi e nere sul firmamento. La città era oscura e silenziosa; ma dopo aver attraversato quell'immenso deserto, gli pareva allegra. Interrogò un prete, trovò presto la chiesa e la casa, tirò il campanello con una mano tremante, e si premette l'altra sul petto per comprimere i battiti del cuore, che gli saltava alla gola.
Una vecchia venne ad aprire, con un lume in mano. Il ragazzo non poté parlar subito.
- Chi cerchi? - domandò quella, in spagnuolo.
- L'ingegnere Mequinez, - disse Marco.
La vecchia fece l'atto d'incrociar le braccia sul seno, e rispose dondolando il capo. - Anche tu, dunque, l'hai con l'ingegnere Mequinez! E mi pare che sarebbe tempo di finirla. Son tre mesi oramai, che ci seccano. Non basta che l'abbiano detto i giornali. Bisognerà farlo stampare sulle cantonate che il signor Mequinez è andato a stare a Tucuman!
Il ragazzo fece un gesto di disperazione. Poi diede in uno scoppio di rabbia. - È una maledizione dunque! Io dovrò morire per la strada senza trovare mia madre! Io divento matto, m'ammazzo! Dio mio! Come si chiama quel paese? Dov'è? A che distanza è?
- Eh, povero ragazzo, - rispose la vecchia, impietosita, - una bagattella! Saranno quattrocento o cinquecento miglia, a metter poco.
Il ragazzo si coprì il viso con le mani; poi domandò con un singhiozzo: - E ora... come faccio?
- Che vuoi che ti dica, povero figliuolo, - rispose la donna; - io non so.
Ma subito le balenò un'idea e soggiunse in fretta: - Senti, ora che ci penso. Fa una cosa. Svolta a destra per la via, troverai alla terza parte un cortile; c'è un capataz, un commerciante, che parte domattina per Tucuman con le sue carretas e i suoi bovi; va a vedere se ti vuol prendere, offrendogli i tuoi servizi; ti darà forse un posto sur un carro; va' subito.
Il ragazzo afferrò la sacca, ringraziò scappando, e dopo due minuti si trovò in un vasto cortile rischiarato da lanterne, dove vari uomini lavoravano a caricar sacchi di frumento sopra certi carri enormi, simili a case mobili di saltimbanchi, col tetto rotondo e le ruote altissime; ed un uomo alto e baffuto, ravvolto in una specie di mantello a quadretti bianchi e neri, con due grandi stivali, dirigeva il lavoro. Il ragazzo s'avvicinò a questo, e gli fece timidamente la sua domanda, dicendo che veniva dall'Italia e che andava a cercare sua madre.
Il capataz, che vuol dir capo (il capo conduttore di quel convoglio di carri), gli diede un'occhiata da capo a piedi, e rispose seccamente: - Non ci ho posto.
- Io ho quindici lire, - rispose il ragazzo, supplichevole, - do le mie quindici lire. Per viaggio lavorerò. Andrò a pigliar l'acqua e la biada per le bestie, farò tutti i servizi. Un poco di pane mi basta. Mi faccia un po' di posto, signore!
Il capataz tornò a guardarlo, e rispose con miglior garbo: - Non c'è posto... e poi... noi non andiamo a Tucuman, andiamo a un'altra città, Santiago dell'Estero. A un certo punto ti dovremmo lasciare, e avresti ancora un gran tratto da far a piedi.
- Ah! io ne farei il doppio! - esclamò Marco; - io camminerò, non ci pensi; arriverò in ogni maniera, mi faccia un po' di posto, signore, per carità, per carità non mi lasci qui solo!
- Bada che è un viaggio di venti giorni!
- Non importa.
- È un viaggio duro!
- Sopporterò tutto
- Dovrai viaggiar solo!
- Non ho paura di nulla. Purché ritrovi mia madre. Abbia compassione!
Il capataz gli accostò al viso una lanterna e lo guardò. Poi disse: - Sta bene.
Il ragazzo gli baciò la mano.
- Stanotte dormirai in un carro, - soggiunse il capataz, lasciandolo; - domattina alle quattro ti sveglierò. Buenas noches.
La mattina alle quattro, al lume delle stelle, la lunga fila dei carri Si mise in movimento con grande strepitio: ciascun carro tirato da sei bovi, seguiti tutti da un gran numero di animali di ricambio. Il ragazzo, svegliato e messo dentro a un dei carri, sui sacchi, si raddormentò subito, profondamente. Quando si svegliò, il convoglio era fermo in un luogo solitario, sotto il sole, e tutti gli uomini - i peones - stavan seduti in cerchio intorno a un quarto di vitello, che arrostiva all'aria aperta, infilato in una specie di spadone piantato in terra, accanto a un gran foco agitato dal vento. Mangiarono tutti insieme, dormirono e poi ripartirono; e così il viaggio continuò, regolato come una marcia di soldati. Ogni mattina si mettevano in cammino alle cinque, si fermavano alle nove, ripartivano alle cinque della sera, tornavano a fermarsi alle dieci. I peones andavano a cavallo e stimolavano i buoi con lunghe canne. Il ragazzo accendeva il fuoco per l'arrosto, dava da mangiare alle bestie, ripuliva le lanterne, portava l'acqua da bere. Il paese gli passava davanti come una visione indistinta: vasti boschi di piccoli alberi bruni; villaggi di poche case sparse, con le facciate rosse e merlate; vastissimi spazi, forse antichi letti di grandi laghi salati, biancheggianti di sale fin dove arrivava la vista; e da ogni parte e sempre, pianura, solitudine, silenzio. Rarissimamente incontravano due o tre viaggiatori a cavallo, seguiti da un branco di cavalli sciolti, che passavano di galoppo, come un turbine. I giorni eran tutti eguali, come sul mare; uggiosi e interminabili. Ma il tempo era bello. Senonché i peones, come se il ragazzo fosse stato il loro servitore obbligato, diventavano di giorno in giorno più esigenti: alcuni lo trattavano brutalmente, con minacce; tutti si facevan servire senza riguardi; gli facevan portare carichi enormi di foraggi; lo mandavan a pigliar acqua a grandi distanze; ed egli, rotto dalla fatica, non poteva neanche dormire la notte, scosso continuamente dai sobbalzi violenti del carro e dallo scricchiolìo assordante delle ruote e delle sale di legno. E per giunta, essendosi levato il vento, una terra fina, rossiccia e grassa, che avvolgeva ogni cosa, penetrava nel carro, gli entrava sotto i panni, gli empiva gli occhi e la bocca, gli toglieva la vista e il respiro, continua, opprimente, insopportabile. Sfinito dalle fatiche e dall'insonnia, ridotto lacero e sudicio, rimbrottato e malmenato dalla mattina alla sera, il povero ragazzo s'avviliva ogni giorno di più, e si sarebbe perduto d'animo affatto se il capataz non gli avesse rivolto di tratto in tratto qualche buona parola. Spesso, in un cantuccio del carro, non veduto, piangeva col viso contro la sua sacca, la quale non conteneva più che dei cenci. Ogni mattina si levava più debole e più scoraggiato, e guardando la campagna, vedendo sempre quella pianura sconfinata e implacabile, come un oceano di terra, diceva tra sé: - Oh! fino a questa sera non arrivo, fino a questa sera non arrivo! Quest'oggi muoio per la strada! - E le fatiche crescevano, i mali trattamenti raddoppiavano. Una mattina, perché aveva tardato a portar l'acqua, in assenza del capataz, uno degli uomini lo percosse. E allora cominciarono a farlo per vezzo, quando gli davano un ordine, a misurargli uno scapaccione, dicendo: - Insacca questo, vagabondo! - Porta questo a tua madre! - Il cuore gli scoppiava; ammalò; - stette tre giorni nel carro, con una coperta addosso, battendo la febbre, e non vedendo nessuno, fuori che il capataz, che veniva a dargli da bere e a toccargli il polso. E allora Si credette perduto, e invocava disperatamente sua madre, chiamandola cento volte per nome: - Oh mia madre! madre mia! Aiutami! Vienmi incontro che muoio! Oh povera madre mia, che non ti vedrò mai più! Povera madre mia, che mi troverai morto per la strada! - E giungeva le mani sul petto e pregava. Poi miglioro, grazie alle cure del capataz, e guarì; ma con la guarigione sopraggiunse il giorno più terribile del suo viaggio, il giorno in cui doveva rimaner solo. Da più di due settimane erano in cammino. Quando arrivarono al punto dove dalla strada di Tucuman si stacca quella che va a Santiago dell'Estero, il capataz gli annunciò che dovevano separarsi. Gli diede qualche indicazione intorno al cammino, gli legò la sacca sulle spalle in modo che non gli desse noia a camminare, e tagliando corto, come se temesse di commuoversi, lo salutò. Il ragazzo fece appena in tempo a baciargli un braccio. Anche gli altri uomini, che lo avevano maltrattato così duramente, parve che provassero un po' di pietà a vederlo rimaner così solo, e gli fecero un cenno d'addio, allontanandosi. Ed egli restituì il saluto con la mano, stette a guardar il convoglio fin che si perdette nel polverìo rosso della campagna, e poi si mise in cammino, tristamente.

Una cosa, per altro, lo riconfortò un poco, fin da principio. Dopo tanti giorni di viaggio a traverso a quella pianura sterminata e sempre eguale egli vedeva davanti a sé una catena di montagne altissime, azzurre, con le cime bianche, che gli rammentavano le Alpi, e gli davan come un senso di ravvicinamento al suo paese. Erano le Ande, la spina dorsale del continente Americano, la catena immensa che si stende dalla Terra del fuoco fino al mare glaciale del polo artico per cento e dieci gradi di latitudine. Ed anche lo confortava il sentire che l'aria si veniva facendo sempre più calda; e questo avveniva perché, risalendo verso settentrione, egli si andava avvicinando alle regioni tropicali. A grandi distanze trovava dei piccoli gruppi di case, con una botteguccia; e comprava qualche cosa da mangiare.

Incontrava degli uomini a cavallo; vedeva ogni tanto delle donne e dei ragazzi seduti in terra, immobili e gravi, delle faccie nuove affatto per lui, color di terra, con gli occhi obbliqui, con l'ossa delle guance sporgenti; i quali lo guardavano fisso, e lo accompagnavano con lo sguardo, girando il capo lentamente, come automi. Erano Indiani. Il primo giorno camminò fin che gli ressero le forze, e dormì sotto un albero. Il secondo giorno camminò assai meno, e con minor animo. Aveva le scarpe rotte, i piedi spellati, lo stomaco indebolito dalla cattiva nutrizione. Verso sera s'incominciava a impaurire. Aveva inteso dire in Italia che in quei paesi c'eran dei serpenti: credeva di sentirli strisciare, s'arrestava, pigliava la corsa, gli correvan dei brividi nelle ossa. A volte lo prendeva una grande compassione di sé, e piangeva in silenzio, camminando. Poi pensava: - Oh quanto soffrirebbe mia madre se sapesse che ho tanta paura! - e questo pensiero gli ridava coraggio. Poi, per distrarsi dalla paura, pensava a tante cose di lei, si richiamava alla mente le sue parole di quand'era partita da Genova, e l'atto con cui soleva accomodargli le coperte sotto il mento, quando era a letto, e quando era bambino, che alle volte se lo pigliava fra le braccia, dicendogli: - Sta' un po' qui con me, - e stava così molto tempo, col capo appoggiato sul suo, pensando, pensando. E le diceva tra sé: - Ti rivedrò un giorno, cara madre? Arriverò alla fine del mio viaggio, madre mia? - E camminava, camminava, in mezzo ad alberi sconosciuti, a vaste piantagioni di canne da zucchero, a praterie senza fine, sempre con quelle grandi montagne azzurre davanti, che tagliavano il cielo sereno coi loro altissimi coni. Quattro giorni - cinque - una settimana passò. Le forze gli andavan rapidamente scemando, i piedi gli sanguinavano. Finalmente, una sera al cader del sole, gli dissero: - Tucuman è a cinque miglia di qui. - Egli gittò un grido di gioia, e affrettò il passo, come se avesse riacquistato in un punto tutto il vigore perduto. Ma fu una breve illusione. Le forze lo abbandonarono a un tratto, e cadde sull'orlo d'un fosso, sfinito. Ma il cuore gli batteva dalla contentezza. Il cielo, fitto di stelle splendidissime, non gli era mai parso così bello. Egli le contemplava, adagiato sull'erba per dormire, e pensava che forse nello stesso tempo anche sua madre le guardava. E diceva: - O madre mia, dove sei? che cosa fai in questo momento? Pensi al tuo figliuolo? Pensi al tuo Marco, che ti è tanto vicino?
Povero Marco, s'egli avesse potuto vedere in quale stato si trovava sua madre in quel punto, avrebbe fatto uno sforzo sovrumano per camminare ancora, e arrivar da lei qualche ora prima. Era malata, a letto, in una camera a terreno d'una casetta signorile, dove abitava tutta la famiglia Mequinez; la quale le aveva posto molto affetto e le faceva grande assistenza.
 
La povera donna era già malaticcia quando l'ingegnere Mequinez aveva dovuto partire improvvisamente da Buenos Aires, e non s'era punto rimessa colla buon'aria di Cordova. Ma poi, il non aver più ricevuto risposta alle sue lettere né dal marito né dal cugino, il presentimento sempre vivo di qualche grande disgrazia, l'ansietà continua in cui era vissuta, incerta tra il partire e il restare, aspettando ogni giorno una notizia funesta, l'avevano fatta peggiorare fuor di modo. Da ultimo, le s'era manifestata una malattia gravissima: un'ernia intestinale strozzata. Da quindici giorni non s'alzava da letto. Era necessaria un'operazione chirurgica per salvarle la vita. E in quel momento appunto, mentre il suo Marco la invocava, stavano accanto al suo letto il padrone e la padrona di casa, a ragionarla con molta dolcezza perché si lasciasse operare, ed essa persisteva nel rifiuto, piangendo. Un bravo medico di Tucuman era già venuto la settimana prima, inutilmente. - No, cari signori - essa diceva, - non mette conto; non ho più forza di resistere; morirei sotto i ferri del chirurgo. È meglio che mi lascino morir così. Non ci tengo più alla vita oramai. Tutto è finito per me. È meglio che muoia prima di sapere cos'è accaduto alla mia famiglia. - E i padroni a dirle di no, che si facesse coraggio, che alle ultime lettere mandate a Genova direttamente avrebbe ricevuto risposta, che si lasciasse operare, che lo facesse per i suoi figliuoli. Ma quel pensiero dei suoi figliuoli non faceva che aggravare di maggior ansia lo scoraggiamento profondo che la prostrava da lungo tempo. A quelle parole scoppiava in un pianto. - Oh, i miei figliuoli! i miei figliuoli! - esclamava, giungendo le mani; - forse non ci sono più! È meglio che muoia anch'io. Li ringrazio, buoni signori, li ringrazio di cuore. Ma è meglio che muoia. Tanto non guarirei neanche con l'operazione, ne sono sicura. Grazie di tante cure, buoni signori. È inutile che dopo domani torni il medico. Voglio morire. È destino ch'io muoia qui. Ho deciso. - E quelli ancora a consolarla, a ripeterle: - No, non dite questo; - e a pigliarla per le mani e a pregarla. Ma essa allora chiudeva gli occhi, sfinita, e cadeva in un assopimento, che pareva morta. E i padroni restavano lì un po' di tempo, alla luce fioca d'un lumicino, a guardare con grande pietà quella madre ammirabile, che per salvare la sua famiglia era venuta a morire a sei mila miglia dalla sua patria, a morire dopo aver tanto penato, povera donna, così onesta, così buona, così sventurata.

Il giorno dopo, di buon mattino, con la sua sacca sulle spalle, curvo e zoppicante, ma pieno d'animo, Marco entrava nella città di Tucuman, una delle più giovani e delle più floride città della Repubblica Argentina. Gli parve di rivedere Cordova, Rosario, Buenos Aires: erano quelle stesse vie diritte e lunghissime, e quelle case basse e bianche; ma da ogni parte una vegetazione nuova e magnifica, un'aria profumata, una luce meravigliosa, un cielo limpido e profondo, come egli non l'aveva mai visto, neppure in Italia. Andando innanzi per le vie, riprovò l'agitazione febbrile che lo aveva preso a Buenos Aires; guardava le finestre e le porte di tutte le case; guardava tutte le donne che passavano, con una speranza affannosa di incontrar sua madre; avrebbe voluto interrogar tutti, e non osava fermar nessuno. Tutti di sugli usci, si voltavano a guardar quel povero ragazzo stracciato e polveroso, che mostrava di venir di tanto lontano. Ed egli cercava fra la gente un viso che gl'ispirasse fiducia, per rivolgergli quella tremenda domanda, quando gli caddero gli occhi sopra un insegna di bottega, su cui era scritto un nome italiano. C'era dentro un uomo con gli occhiali e due donne. Egli s'avvicinò lentamente alla porta, e fatto un animo risoluto, domandò: - Mi saprebbe dire, signore, dove sta la famiglia Mequinez?
- Dell'ingeniero Mequinez? - domandò il bottegaio alla sua volta.
- Dell'ingegnere Mequinez, - rispose il ragazzo, con un fil di voce.
- La famiglia Mequinez, - disse il bottegaio, - non è a Tucuman.
Un grido di disperato dolore, come d'una persona pugnalata, fece eco a quelle parole.
Il bottegaio e le donne s'alzarono, alcuni vicini accorsero. - Che c'è? che hai, ragazzo? - disse il bottegaio, tirandolo nella bottega e facendolo sedere; - non c'è da disperarsi, che diavolo! I Mequinez non sono qui, ma poco lontano, a poche ore da Tucuman!
- Dove? dove? - gridò Marco, saltando su come un resuscitato.
- A una quindicina di miglia di qua, - continuò l'uomo, - in riva al Saladillo, in un luogo dove stanno costruendo una grande fabbrica da zucchero, un gruppo di case, c'è la casa del signor Mequinez, tutti lo sanno, ci arriverai in poche ore.
- Ci son stato io un mese fa, - disse un giovane che era accorso al grido.
Marco lo guardò con gli occhi grandi e gli domandò precipitosamente, impallidendo: - Avete visto la donna di servizio del signor Mequinez, l'italiana?
- La jenovesa? L'ho vista.
Marco ruppe in un singhiozzo convulso, tra di riso e di pianto. Poi con un impeto di risoluzione violenta: - Dove si passa, presto, la strada, parto subito, insegnatemi la strada!
- Ma c'è una giornata di marcia, - gli dissero tutti insieme, - sei stanco, devi riposare, partirai domattina.
- Impossibile! Impossibile! - rispose il ragazzo. - Ditemi dove si passa, non aspetto più un momento, parto subito, dovessi morire per via!
Vistolo irremovibile, non s'opposero più. - Dio t'accompagni, - gli dissero. - Bada alla via per la foresta. - Buon viaggio, italianito. - Un uomo l'accompagnò fuori di città, gli indicò il cammino, gli diede qualche consiglio e stette a vederlo partire. In capo a pochi minuti, il ragazzo scomparve, zoppicando, con la sua sacca sulle spalle, dietro agli alberi folti che fiancheggiavan la strada.

Quella notte fu tremenda per la povera inferma. Essa aveva dei dolori atroci che le strappavan degli urli da rompersi le vene, e le davan dei momenti di delirio. Le donne che l'assistevano, perdevan la testa. La padrona accorreva di tratto in tratto, sgomentata. Tutti cominciarono a temere che, se anche si fosse decisa a lasciarsi operare, il medico che doveva venire la mattina dopo, sarebbe arrivato troppo tardi. Nei momenti che non delirava, però, si capiva che il suo più terribile strazio non erano i dolori del corpo, ma il pensiero della famiglia lontana. Smorta, disfatta, col viso mutato, si cacciava le mani nei capelli con un atto di disperazione che passava l'anima, e gridava: - Dio mio! Dio mio! Morire tanto lontana, morire senza rivederli! I miei poveri figliuoli, che rimangono senza madre, le mie creature, il povero sangue mio! Il mio Marco, che è ancora così piccolo, alto così, tanto buono e affettuoso! Voi non sapete che ragazzo era! Signora, se sapesse! Non me lo potevo staccare dal collo quando son partita, singhiozzava da far compassione, singhiozzava; pareva che lo sapesse che non avrebbe mai più rivisto sua madre, povero Marco, povero bambino mio! Credevo che mi scoppiasse il cuore! Ah se fossi morta allora, morta mentre mi diceva addio! morta fulminata fossi! Senza madre, povero bambino, lui che m'amava tanto, che aveva tanto bisogno di me, senza madre, nella miseria, dovrà andare accattando, lui, Marco, Marco mio, che tenderà la mano, affamato! Oh! Dio eterno! No! Non voglio morire! Il medico! Chiamatelo subito! Venga, mi tagli, mi squarci il seno, mi faccia impazzire, ma mi salvi la vita! Voglio guarire, voglio vivere, partire, fuggire, domani, subito! Il medico! Aiuto! Aiuto! - E le donne le afferavan le mani, la palpavano, pregando, la facevano tornare in sé a poco a poco, e le parlavan di Dio e di speranza. E allora essa ricadeva in un abbattimento mortale, piangeva, con le mani nei capelli grigi, gemeva come una bambina, mettendo un lamento prolungato, e mormorando di tratto in tratto: - Oh la mia Genova! La mia casa! Tutto quel mare!... Oh Marco mio, il mio povero Marco! Dove sarà ora, la povera creatura mia!

Era mezzanotte; e il suo povero Marco, dopo aver passato molte ore sulla sponda d'un fosso, stremato di forze, camminava allora attraverso a una foresta vastissima di alberi giganteschi, mostri della vegetazione, dai fusti smisurati, simili a pilastri di cattedrali, che intrecciavano a un'altezza meravigliosa le loro enormi chiome inargentate dalla luna. Vagamente, in quella mezza oscurità, egli vedeva miriadi di tronchi di tutte le forme, ritti, inclinati, scontorti, incrociati in atteggiamenti strani di minaccia e di lotta; alcuni rovesciati a terra, come torri cadute tutte d'un pezzo, e coperti d'una vegetazione fitta e confusa, che pareva una folla furente che se li disputasse a palmo a palmo; altri raccolti in grandi gruppi, verticali e serrati come fasci di lancie titaniche, di cui la punta toccasse le nubi; una grandezza superba, un disordine prodigioso di forme colossali, lo spettacolo più maestosamente terribile che gli avesse mai offerto la natura vegetale. A momenti lo prendeva un grande stupore. Ma subito l'anima sua si rilanciava verso sua madre. Ed era sfinito, coi piedi che facevan sangue, solo in mezzo a quella formidabile foresta, dove non vedeva che a lunghi intervalli delle piccole abitazioni umane, che ai piedi di quegli alberi parevan nidi di formiche, e qualche bufalo addormentato lungo la via; era sfinito, ma non sentiva la stanchezza; era solo, e non aveva paura. La grandezza della foresta ingrandiva l'anima sua; la vicinanza di sua madre gli dava la forza e la baldanza d'un uomo; la ricordanza dell'oceano, degli sgomenti, dei dolori sofferti e vinti, delle fatiche durate, della ferrea costanza spiegata, gli facea, alzare la fronte; tutto il suo forte e nobile sangue genovese gli rifluiva al cuore in un'onda ardente d'alterezza e d'audacia. E una cosa nuova seguiva in lui: che mentre fino allora aveva portata nella mente un'immagine della madre oscurata e sbiadita un poco da quei due anni di lontananza, in quei momenti quell'immagine gli si chiariva; egli rivedeva il suo viso intero e netto come da lungo tempo non l'aveva visto più; lo rivedeva vicino, illuminato, parlante; rivedeva i movimenti più sfuggevoli dei suoi occhi e delle sue labbra, tutti i suoi atteggiamenti, tutti i suoi gesti, tutte le ombre dei suoi pensieri; e sospinto da quei ricordi incalzanti, affrettava il passo; e un nuovo affetto, una tenerezza indicibile gli cresceva, gli cresceva nel cuore, facendogli correre giù pel viso delle lacrime dolci e quiete; e andando avanti nelle tenebre, le parlava, le diceva le parole che le avrebbe mormorate all'orecchio tra poco: - Son qui, madre mia, eccomi qui, non ti lascerò mai più; torneremo a casa insieme, e io ti starò sempre accanto sul bastimento, stretto a te, e nessuno mi staccherà mai più da te, nessuno, mai più, fin che avrai vita! - E non s'accorgeva intanto che sulle cime degli alberi giganteschi andava morendo la luce argentina della luna nella bianchezza delicata dell'alba.

Alle otto di quella mattina il medico di Tucuman, - un giovane argentino - era già al letto della malata, in compagnia d'un assistente, a tentare per l'ultima volta di persuaderla a lasciarsi operare; e con lui ripetevano le più calde istanze l'ingegnere Mequinez e la sua signora. Ma tutto era inutile. La donna, sentendosi esausta di forze, non aveva più fede nell'operazione; essa era certissima o di morire sull'atto o di non sopravvivere che poche ore, dopo d'aver sofferto invano dei dolori più atroci di quelli che la dovevano uccidere naturalmente. Il medico badava a ridirle: - Ma l'operazione è sicura, ma la vostra salvezza è certa, purché ci mettiate un po' di coraggio! Ed è egualmente certa la vostra morte se vi rifiutate! - Eran parole buttate via. - No, - essa rispondeva, con la voce fioca, - ho ancora coraggio per morire; ma non ne ho più per soffrire inutilmente. Grazie, signor dottore. È destinato così. Mi lasci morir tranquilla. - Il medico, scoraggiato, desistette. Nessuno parlò più. Allora la donna voltò il viso verso la padrona, e le fece con voce di moribonda le sue ultime preghiere. - Cara, buona signora, - disse a gran fatica, singhiozzando, - lei manderà quei pochi denari e le mie povere robe alla mia famiglia... per mezzo del signor Console. Io spero che sian tutti vivi. Il cuore mi predice bene in questi ultimi momenti. Mi farà la grazia di scrivere... che ho sempre pensato a loro, che ho sempre lavorato per loro... per i miei figliuoli... e che il mio solo dolore fu di non rivederli più... ma che son morta con coraggio... rassegnata... benedicendoli; e che raccomando a mio marito... e al mio figliuolo maggiore... il più piccolo, il mio povero Marco... che l'ho avuto in cuore fino all'ultimo momento... - Ed esaltandosi tutt'a un tratto, gridò giungendo le mani: - Il mio Marco! Il mio bambino! La vita mia!... - Ma girando gli occhi pieni di pianto, vide che la padrona non c'era più: eran venuti a chiamarla furtivamente. Cercò il padrone: era sparito. Non restavan più che le due infermiere e l'assistente. Si sentiva nella stanza vicina un rumore affrettato di passi, un mormorio di voci rapide e sommesse, e d'esclamazioni rattenute. La malata fissò sull'uscio gli occhi velati, aspettando. Dopo alcuni minuti vide comparire il medico, con un viso insolito; poi la padrona e il padrone, anch'essi col viso alterato. Tutti e tre la guardarono con un'espressione singolare, e si scambiarono alcune parole a bassa voce. Le parve che il medico dicesse alla signora: - Meglio subito. - La malata non capiva.
- Josefa, - le disse la padrona con la voce tremante. - Ho una buona notizia da darvi. Preparate il cuore a una buona notizia.
La donna la guardò attentamente.
- Una notizia, - continuò la signora, sempre più agitata, - che vi darà una grande gioia.
La malata dilatò gli occhi.
- Preparatevi, - proseguì la padrona, - a vedere una persona... a cui volete molto bene.
La donna alzò il capo con un scatto vigoroso, e cominciò a guardare rapidamente ora la signora ora l'uscio, con gli occhi sfolgoranti.
- Una persona, - soggiunse la signora, impallidendo, - arrivata or ora... inaspettatamente.
- Chi è? - gridò la donna con una voce strozzata e strana, come di persona spaventata.
Un istante dopo gittò un grido altissimo, balzando a sedere sul letto, e rimase immobile, con gli occhi spalancati e con le mani alle tempie, come davanti a un'apparizione sovrumana.
Marco, lacero e polveroso, era là ritto sulla soglia, trattenuto per un braccio dal dottore.
La donna urlò tre volte: - Dio! Dio! Dio mio!
Marco si slanciò avanti, essa protese le braccia scarne, e serrandolo al seno con la forza d'una tigre, scoppiò in un riso violento, rotto da profondi singhiozzi senza lagrime, che la fecero ricader soffocata sul cuscino.
Ma si riprese subito e gridò pazza di gioia, tempestandogli il capo di baci: - Come sei qui? Perché? Sei tu? Come sei cresciuto! Chi t'ha condotto? Sei solo? Non sei malato? Sei tu, Marco! Non è un sogno! Dio mio! Parlami! - Poi cambiando tono improvvisamente: - No! Taci! Aspetta! - E voltandosi verso il medico, a precipizio: - Presto, subito, dottore. Voglio guarire. Son pronta. Non perda un momento. Conducete via Marco che non senta. Marco mio, non è nulla. Mi racconterai. Ancora un bacio. Va. Eccomi qui, dottore.
Marco fu portato via. I padroni e le donne uscirono in fretta; rimasero il chirurgo e l'assistente, che chiusero la porta.
Il signor Mequinez tentò di tirar Marco in una stanza lontana; ma fu impossibile; egli parea inchiodato al pavimento.
- Cosa c'è? - domandò. - Cos'ha mia madre? Cosa le fanno?
E allora il Mequinez, piano, tentando sempre di condurlo via: - Ecco. Senti. Ora ti dirò. Tua madre è malata, bisogna farle una piccola operazione, ti spiegherò tutto, vieni con me.
- No, - rispose il ragazzo, impuntandosi, - voglio star qui. Mi spieghi qui.
L'ingegnere ammontava parole su parole, tirandolo: il ragazzo cominciava a spaventarsi e a tremare.
A un tratto un grido acutissimo, come il grido d'un ferito a morte, risonò in tutta la casa.
Il ragazzo rispose con un altro grido disperato: - Mia madre è morta!
Il medico comparve sull'uscio e disse: - Tua madre è salva.
Il ragazzo lo guardò un momento e poi si gettò ai suoi piedi singhiozzando: - Grazie dottore!
Ma il dottore lo rialzò d'un gesto, dicendo: - Levati!... Sei tu, eroico fanciullo, che hai salvato tua madre.




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Fai da te: Come rimettere a nuovo il legno con la sverniciatura

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Volete recuperare un vecchio mobile? Ecco una guida utile pere imparare a liberarlo dagli strati di vernice accumulatisi con il tempo.

Asportare la vecchia vernice dai mobili in legno è un lavoro molto impegnativo e sporchevole, ma i risultati che si ottengono ripagano ampiamente la fatica e il tempo impiegati. I prodotti per sverniciare sono preparati chimici che si trovano in commercio e si chiamano sverniciatori, sono il metodo migliore per liberare il legno da vecchie vernici o laccature senza rovinarlo. Questi prodotti sono ottimi soprattutto se si vuole poi mantenere il legno "al naturale", proteggendolo soltanto con una vernice trasparente (flatting). Per contro è sconsigliabile usare gli sverniciatori a caldo, con i quali si rischia di bruciacchiare il legno. A sverniciatura avvenuta è possibile modificare il colore del legno, sia applicando uno sbiancante sia trattandolo con un colorante più scuro. E' evidente comunque che qualsiasi tipo di stuccatura o restauro dovrà essere eseguito prima di intervenire con vernici o prodotti di ogni tipo.

Vediamo ora cosa ci occorre per intraprendere questa impresa:
innanzitutto dobbiamo procurarci uno sverniciatore chimico per vernici o lacche, preferibile senz'altro il tipo liquido che si elimina con acquaragia; le paste caustiche che si tolgono con acqua semplice tendono a scurire il legno e non vanno assolutamente usate su impiallacciature.
Lo sbiancante per il legno, necessario per togliere eventuali macchie presenti nel legno sverniciato oppure per schiarire totalmente il colore originario se si vuole appicare una vernice più chiara. Lo sverniciatore si compone generalmente di preparati da usare in sequenza.
Lo stucco per il legno, reperibile in varie tonalità di colore (riferite ai vari tipi di legno). Serve per sigillare i vari buchi e crepe. Va tenuto conto però che una verniciatura trasparente non riesce a nasconderlo, per cui, se fori e screpolature sono di lieve entità, è meglio non stuccarli.
Il turapori, un prodotto che serve a otturare la forte porosità di certi legni (come il rovere) in modo da ottenere una superficie liscia su cui stendere la finitura desiderata. Naturalmente non è necessario per legni a grana fine. Lo si trova in commercio nelle varie tonalità del legno e lo si può anche modificare miscelandolo con una certa percentuale di colorante per legno.
Il colorante per legno, necessario per dare alle superfici sverniciate una tonalità più carica, senza nascondere le venature del legno. I colori ad alcool sono di facile uso: vanno dal colore chiarissimo del pino a quello scurissimo dell'ebano e si possono miscelare per ottenere l'esatta tonalità voluta (parliamo di passaggi dal chiao verso lo scuro).
Il pennello da legno, che ha setole spesse per consentire una maggiore omogeneità della verniciatura. In alternativa si può anche ricorrere a un pennello normale di tipo piatto. Per le superfici ampie usate pennelli da 50 o 75 mm., per superfici piccole pennelli da 25 mm. Riservate questi pennelli esclusivamente alla verniciatura del legno.
La vernice al poliuretano, una finitura forte e durevole che tuttavia richiede molta più attenzione nell'applicarla che non l'olio o la cera. Esiste in versione opaca, semilucida e lucida, in varie tonalità naturali e in vari colori.
L'olio, esalta il colore del legno e ne valorizza la grana e la venatura. Gli oli oggi in uso sono più duraturi e asciugano più rapidamente  del classico olio di lino che si utilizzava un tempo. Se si preferisce una brillantezza moderata si può usare olio danese, mentre per un effetto più marcato va usato l'olio di tek.
La cera, conferisce una lucentezza morbida, non eccessiva. Non si tratta di una finitura molto resistente, per cui di solito la si applica al di sopra di un fissatore specifico. La cera per legno esiste sia trasparente che colorata (quest'ultima spesso si usa per dare al legno un effetto volutamente "vecchio").

Fatta tutta questa premessa non ci resta iniziare:
Per entrare nel dettaglio segui le spigazioni passo, passo clicca sul link seguente: Come rimettere a nuovo il legno parte_2




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Lavori con l'uncinetto: Striscia con motivi quadrati

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Una striscia con tanti motivi quadrati. Si può realizzare nelle dimensioni che ci occorrono. Ideale anche per comporre un trittico di centri per la camera da letto.

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Schemi per il filet: Striscia semplice a filet

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Una striscia semplice da realizzare a filet. Questo modello si può lavorare della grandezza desiderata, basta ripetere il motivo in larghezza e lavorare la lunghezza secondo il vostro bisogno.

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Il calendario dell'Avvento

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